Convivere con la paura e sotto scorta, intervista a Paolo Borrometi

Cosa significa lavorare sotto scorta e convivere con la paura? Non tutti i giornalisti sono liberi di praticare la propria professione senza minacce e intimidazioni. L'intervista a Paolo Borrometi.

Silvia Buffo
Silvia Buffo
Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.
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In Italia non di rado accade che vicende di cronaca locale e nazionale siano strettamente collegate alla mafia.

Evitare di trattarle giornalisticamente spesso è impossibile perché strettamente intrecciate al tessuto sociale di provenienza, come può testimoniare Paolo Borrometi, siciliano, nato a Modica, oggi vicedirettore dell’Agenzia Giornalistica Italia, oltre a esser ancora impegnato nella direzione della testata giornalistica LaSpia.it da lui fondata.

Abbiamo chiesto a Paolo di ripercorrere il suo percorso professionale che si è inevitabilmente intrecciato alla sua vita privata, vivendo sotto scorta per poter continuare a fare il suo lavoro e mantenere libertà di parola e dovere di cronaca.

Di recente Paolo Borrometi ha nuovamente subito minacce di morte per un’inchiesta molto importante riguardante il business del Pomodoro Pachino IGP, ma cosa vuol dire convivere costantemente con la paura?

L’intervista a Paolo Borrometi

Paolo, come ti sei avvicinato a ciò che più ti caratterizza professionalmente, il giornalismo di mafia…

Io non pensavo di occuparmi di criminalità organizzata, di mafie. Inizio con degli articoli di terza pagina, poi di cronaca, di cronaca giudiziaria. Diciamo che alcune circostanze, come l’omicidio di un ragazzo che si chiama Ivan Inglese, poi l’occupazione delle case di Modica, mi hanno portato a fare le prime inchieste sulla mafia, ma io non ho cercato la mafia.

Potremmo dire un po’ che è tutto quello che è accaduto nella mia terra, la Sicilia, che rende inevitabile scontrarsi, in qualità di giornalista, con la mafia.

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Quali sono le vicende professionali che più ti hanno messo paura e come si convive con essa?

Sono due gli episodi che mi hanno provocato maggiore paura: il primo, l’aggressione del 16 aprile del 2014, quando mi dissero quella famosa frase che mi ripeto spesso cioè “Non ti sei fatto i cazzi tuoi e se non ti fai i cazzi tuoi…”.

E la seconda molto probabilmente, anzi certamente, è quella delle intercettazioni con cui nell’aprile del 2018 il giudice per avviare le indagini preliminari mise nero su bianco che era pronta “un’eclatante azione omicidiaria per eliminare lo scomodo giornalista Paolo Borrometi”, lo cito purtroppo testualmente.

Come si convive con la paura? Io dopo l’aggressione del 16 aprile 2014, che è solo la prima, stavo per cedere a quella paura, poi mi sono reso conto che se avessi ceduto a quella paura non solo avrei fatto vincere loro, ma avrei anche perso io e avrebbero perso tutti coloro i quali si informavano tramite me.

E siccome io penso di non aver fatto nulla di particolare, non potevo cedere a quella paura. Certo la paura è tanta, ho imparato a non farmi bloccare le gambe ma a viverla con un migliore e maggiore senso di responsabilità, se possibile.

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Hai fatto saltare un business da milioni di euro legato al Pomodoro Pachino IGP, ci racconti come è andata?

Nasce a scuola questa inchiesta, dall’incontro con una studentessa alla fine di una lezione. Questa ragazza mi disse “Se lei è veramente un giornalista deve aiutare mio padre e tanti come mio padre, quel capomafia di cui lei sempre parla“. Ricordo perfettamente le sue parole. Io la guardai e mi dissi “Ma come faccio”?

La ragazzina era figlia di uno degli imprenditori strozzati dal capomafia di cui parlavo a scuola, Salvatore Giuliano, che aveva dato il suo cognome al clan, con alle spalle una condanna di 24 anni per mafia, posizione apicale e per tanti altri reati. Dopo neanche 20 anni era uscito e aveva tentato di eleggere un sindaco a lui vicino. In quel periodo avevo raccontato questa storia in un’inchiesta giornalistica, facendo nomi e cognomi.

Sapevo però che quel capomafia uscito dalle patrie galere aveva pure una ditta, anzi una delle più importanti ditte di produzione e commercializzazione del Pomodoro di Pachino, che aveva intestato al figlio. Tramite le visure camerali, tramite la ricerca di informazioni ricostruii il tutto. Da quella inchiesta giornalistica nacquero o presero le mosse quelle intercettazioni, poi l’operazione delle forze dell’ordine.

C’era stato appunto un momento in cui quella ditta si chiamava La fenice S.r.l., intestata al figlio del capomafia, Gabriele Giuliano, e al figlio del braccio destro del capomafia, cioé Vizzini. In seguito alla mia inchiesta quella ditta fu buttata fuori dal Consorzio IGP del Pomodoro Pachino. Da quel momento i boss mi condannarono a morte e poi la polizia tramite quelle intercettazioni ambientali riuscì a scoprire, sventare quell’attentato, “quell’eclatante azione omicidiaria” nei miei confronti.

Il Covid sta ostacolando o agevolando la corruzione in Italia? Se sì in che modo?

Il Covid sta agevolando soprattutto le mafie. Vedi, in un momento in cui manca liquidità, c’è una grande povertà, le mafie hanno quella liquidità e te la propongono travestendosi da agnellini. In verità quel “prestito” diventerà il cappio.

Chi lo riceve non potrà rientrare del debito e chi te lo ha fatto, per rientrare, si prenderà la tua azienda, la tua attività economica e, bene che andrà, rimarrai subalterno in quella che era la tua attività.

Com’è esattamente vivere sotto scorta? Cosa senti di dire a chi critica te, Saviano, Sandro Ruotolo, che in altre condizioni non potreste né vivere né lavorare?

paolo borrometi
Paolo Borrometi, vicedirettore dell’Agenzia Giornalistica Italia e direttore della testata giornalistica LaSpia.it da lui fondata.

Tutto nasce da un grande equivoco di fondo. Quando parliamo di scorte bisognerebbe dividerle in due categorie, le scorte che ti sono imposte, che sono quelle che purtroppo abbiamo io, Sandro e Don Luigi Ciotti, imprenditori, magistrati che rischiano la vita, che hanno ricevuto delle minacce concrete con progetti di attentato o addirittura, come nel caso di Giuseppe Antoci, già degli attentati subiti, e quelle dei politici che invece sono delle scorte cosiddette istituzionali: è questa la grande differenza che bisogna fare.

Io non ho mai chiesto di vivere sotto scorta e con cinque carabinieri, non era e non è il mio sogno di vita, tutt’altro.

Vivere sotto scorta significa stravolgere la quotidianità, significa non poter andare all’improvviso a cena fuori, al bar, se hai dimenticato banalmente una medicina non poter uscire per comprarla. Vivere sotto scorta è una prigione, però la scorta mi ha salvato la vita ed è chiaro, lo si vede da quelle intercettazioni, lo si vede dai 43 processi che ho in corso tutt’ora per minacce di morte. Io dirò sempre grazie a quegli uomini che indossano una divisa e che fanno di tutto per salvarti la vita.

Per me è stato così e a chi continua a criticare e a condannare senza neanche rendersi conto di cosa voglia dire una vita sotto scorta io gli direi di fare 24 ore con me, di vedere cosa significa, io non vado al mare da 7 anni, questo sarà il settimo ed è brutto quando mi dicono “Tu in fondo hai perso la tua libertà”. Io rispondo che certamente ho perso un po’ di libertà fisica ma ho preservato la libertà più importante che è la libertà di pensiero, di parola e di fare semplicemente il mio dovere.

Una considerazione su Giulio Regeni: hai fiducia nell’Italia, pensi che si stia facendo tutto il necessario?

Io indosso il braccialetto “Verità e giustizia per Giulio Regeni” dal giorno dopo la drammatica morte di Giulio in Egitto e ho partecipato a qualsiasi iniziativa per Giulio. Penso che Giulio non sia un ragazzo che se l’è andata cercando, ma penso che Giulio faccia parte di quella bella gioventù italiana che va fuori per formarsi, per poi rientrare e portare nuove competenze. Spero che il Governo faccia molto di più di quello che ha fatto fino ad oggi per chiedere giustizia e verità. Oramai è chiara, è chiaro come siano andate le cose e ritengo che non solo l’Italia ma l’Europa, la comunità internazionale debba farsi promotrice della richiesta di verità e giustizia per Giulio Regeni.

Perché è importante ricordare Antonio Megalizzi? Hai anche dedicato un bel libro a questo ‘ragazzo europeo’

Antonio Megalizzi era un ragazzo semplice, normale: questo voleva essere. Non gli sarebbe piaciuto che qualcuno scrivesse un libro per commemorarlo rendendolo un martire o un eroe. E nemmeno diventare simbolo di chissà quale «meglio gioventù» trasformandosi in una figura stereotipata e lontana, Antonio non lo avrebbe mai voluto. Per questo non ho scritto un libro su di lui, ma un libro per lui.

Antonio e io purtroppo non ci siamo mai incontrati di persona, cosa che rimpiango molto, vivendo nel suo stesso mondo. Però ho potuto conoscerlo attraverso ciò che ci ha lasciato, scritti pubblici e privati, e mi sono innamorato di ciò che era: un entusiasta, un passionale, un giovane contagioso e travolgente, tutto quello che ogni ragazzo della sua età dovrebbe essere.

Per questo a raccontare di lui nelle pagine del libro sono soprattutto i suoi articoli e le sue annotazioni, e io a far da tramite: gli ho prestato la penna, l’ho tenuta per lui, ma ho lasciato ad Antonio le parole.

Leggi anche: “La mafia chiedeva il pizzo a mio padre, non chiamatemi la figlia del pentito”

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