Mafia City non è solo un videogioco

Mafia City, il videogioco che spopola tra i giovanissimi ripropone la questione dell'esaltazione dei modelli criminali. Come alcune serie TV o molte canzoni neomelodiche. Eppure le differenze ci sono. E non da poco.

Giommaria Monti
Giommaria Monti
Giornalista e autore TV (Annozero, Il raggio verde, Omnibus, Unomattina, Cartabianca), ha scritto di politica, cronaca, mafia e terrorismo. A tempo perso di cantautori italiani. Conosce a memoria i testi di Pasquale Panella per Battisti. E se ne vanta.
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Mafia City è il videogioco che spopola sui social fra esaltazione e indignazione, ma non è la prima volta che si dibatte sul problema dell’istigazione a delinquere. Possono un film, una canzone, un videogame aiutare una cultura antimafia? Aveva ragione Paolo Borsellino quando diceva che i magistrati possono agire solo in parte nella lotta alla mafia, che se l’antistato mafioso genera consensi “bisogna rovesciare questo percorso, formando i giovani alla cultura dello stato e delle istituzioni”? Nessuno ne ha la certezza, ovviamente. Come nemmeno del paradigma contrario.

Possono un film, una canzone, un videogame contribuire alla formazione della figura eroica del boss mafioso?

La discussione non è nuova, ricordiamo bene la maglietta “mafia made in Italy” che Maurizio Costanzo bruciò in diretta tv sotto gli occhi di Giovanni Falcone e che gli costò l’attentato di via Ruggero Fauro. Come ricordiamo le polemiche sulla serie Gomorra e su Suburra e ‘mafia capitale’ che, si disse, trasformano assassini in eroi picareschi. Riemerge oggi per un videogame destinato ai ragazzini: MafiaCity, che ha suscitato l’ira di alcuni deputati del Pd. Dice l’on Carmelo Miceli che chiederà l’oscuramento del gioco:

MafiaCity è un prodotto subdolo e uno strumento di propaganda mafiosa e di istigazione alle pratiche delinquenziali.

Leggi anche: “Quarantena obbligatoria”: l’appello alla Mafia di un professore universitario

Mafia City, il videogioco osannato dai social

MafiaCity in realtà circola già dal 2017, ma nelle ultime settimane ha scatenato una campagna pubblicitaria molto aggressiva sui social, con i protagonisti che spopolano con fucili mitragliatori, pistole e ogni genere di armi che fanno trionfare i malamente contro i cittadini e i le forze dell’ordine. Non è la prima volta e non sarà nemmeno l’ultima, temiamo. È solo un videogioco non più violento di tanti altri, è la difesa sui social. Anche se la realtà spesso è molto più atroce e perversa della fantasia di chi inventa questa roba, come la vicenda della caserma dei carabinieri Levante a Piacenza sta facendo emergere. Eppure no, non è solo un gioco.

Mafia City non denuncia il male, lo esalta

Un film ha una cornice narrativa, un contesto dentro il quale, come in Gomorra, emerge chiaro e inequivocabile l’elemento respingente della cultura mafiosa. Ciro di Marzo o Pietro Savastano non sono eroi che vincono, che trionfano sulla legge, ma sono il male che vince sullo stesso male, in una guerra di antieroi dove lo spettatore non è portato a schierarsi, ma resta col fiato sospeso fino alla fine. Quel contesto narrativo è totalmente assente in quel videogame: in Mafia City si inscena l’eterna guerra tra bene e il male e se vince il male è perché sei tu, protagonista, che guidi la gara, che decidi di non fermarti mai.

Da La Piovra a Gomorra, le serie tv non sono come il videogioco Mafia City

Raccontare il male, anche nell’assenza del suo opposto, non è santificarlo o innalzarlo all’eroismo. Tutt’altro: hanno aiutato a capire il contesto mafioso più una serie tv come La Piovra negli anni Ottanta o un libro come Gomorra di Saviano negli anni duemila che mille trattati di sociologia. Eppure rappresentavano il male. Altra cosa è edificarlo e osannarlo. È quello che devono aver pensato i giudici di Napoli che hanno condannato pochi giorni fa in primo grado a un anno e quattro mesi il cantante neomelodico Aniello Imperato, in arte Nello Liberti per il suo brano O capoclan.

Leggi anche: “La mafia chiedeva il pizzo a mio padre, non chiamatemi la figlia del pentito”

Non solo Mafia City, anche certe canzoni neomelodiche istigano a delinquere

Ci hanno messo sedici anni a capirlo (il pezzo è del 2004), ma la canzone neomelodica di Liberti che risuonava nelle strade dei quartieri Vasto, all’Arenaccia, a San Carlo Arena, nei Rioni Amicizia e Sant’Antonio Abate che descrive il capoclan come “un uomo serio, non è davvero cattivo, lui ci rispetta e noi dobbiamo rispettarlo. E se ha sbagliato è stato per necessità”. E pazienza se i giudici sono convinti che il capoclan in questione sia il boss di Ercolano Vincenzo Oliviero e che la canzone sia una vera e propria istigazione a delinquere.

Era già capitato che i neomelodici finissero in manette

Ma per storie di droga o pallottole: Raffaello nel 2015 finì in mezzo a una sparatoria e fu arrestato per tentato omicidio, storia analoga quella di Alfonso Mangella in arte Zuccherino, Tony Marciano (il più famoso di tutti) accusato di aver importato droga dall’Olanda. Con Nello Liberti è la prima volta che un cantante viene condannato per una canzone. Quando nel 2012 il collega Alessandro De Pascale scrisse il libro Telecamorra. Guerra tra clan per il controllo dell’etere.

Nell’introduzione al bellissimo libro scrissi:

Dentro canzoni come ‘O capoclan di Nello Liberti (una vera hit nelle radio di Napoli) c’è l’idea stessa di camorra. Parole elementari che arrivano dritte allo scopo (…) Quello che sembra un fenomeno ciminal-folcloristico (i neomelodici) muove interessi economici e assetti di potere.

Era il 2012: otto anni dopo i giudici di primo grado di Napoli con una sentenza inedita dicono che forse non sono solo canzonette. Chissà, magari tra sedici anni scopriremo che non è nemmeno solo un videogame.

Leggi anche: Ex Boss al 41 bis chiede a Mattarella: Fucilatemi in cortile

di Giommaria Monti

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