Più del 50% del cibo prodotto è sprecato, ma c’è chi ha pensato una soluzione

Elza Coculo
Elza Coculo
Elza Coculo, 30 anni, di adozione romana. Lettrice appassionata con formazione in Studi italiani. Laureata in Editoria e Scrittura. Redattrice per Il Digitale. Amo scrivere di attualità e cultura eco-sostenibile.
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Lo spreco di cibo è una delle patologie sociali, economiche ed ecologiche più gravi tra quelle che affliggono il nostro pianeta. Lo dice la FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura. Attualmente circa 820 milioni di persone nel mondo muoiono di fame o devono accontentarsi di un’alimentazione inadeguata. Eppure, almeno un terzo del nutrimento prodotto a livello globale non viene mangiato ma rimane incolto nei campi o finisce nelle discariche. Parliamo di circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo non consumato, come si legge nello studio Global Food Losses and Food Waste condotto proprio dalla FAO. Si stima che la popolazione mondiale toccherà i 9 miliardi di persone nei prossimi trent’anni. Per rispondere al fabbisogno alimentare di tutti, con gli attuali trend di domanda è stimato che la produzione alimentare entro il 2050 dovrà essere incrementata del 60-70%. Un preoccupante paradosso se si considera che basterebbe contrastare gli sprechi per garantire fino ai tre quinti dell’offerta necessaria. Lo spreco alimentare è una piaga su cui si riflette ancora poco. Oltre a valutazioni di tipo economico, ci sono questioni ambientali e psicologiche urgenti da affrontare. Insieme al contadino Boer, abbiamo provato a capire quali sono le soluzioni ottenibili cambiando la nostra idea di agricoltura.

Un’agricoltura più integrata nel sistema sociale è davvero possibile?

Questa domanda è complessa perché lo spreco è una vera e propria piaga culturale dell’Occidente. Ho avuto la fortuna di studiare a Bologna con il professor Andrea Segre, creatore del Last Minute Market, impresa sociale che dal 2019 collabora con tutta Italia. Lui è stato tra i primi a cercare una soluzione per affrontare un problema attuale, cercando di affiancare la grande distribuzione nella prevenzione dello spreco. Non tutti sanno che circa il 40% della produzione italiana viene lasciata in campo, cioè non viene neanche raccolta. E il dato si riferisce soltanto al primo passaggio della filiera. Del 60% dei prodotti che arrivano sul mercato poi, se non sbaglio, un altro 12% viene di nuovo perso. Nelle case del consumatore finale arriva meno del 50% di quanto prodotto. In ogni passaggio di filiera si perde qualcosa. Inoltre, oggi ci si alimenta in maniera eccessiva. Anche il consumatore, comprando e mangiando più di quanto avrebbe bisogno, sta sprecando cibo e risorse. Quindi non si tratta tanto di creare un’agricoltura più sostenibile, ma un modello che sia anche sociale. Un contatto più diretto con il produttore permetterebbe di abbattere alcune fasi nella filiera, diminuendo di conseguenza parte della percentuale di spreco. In questo modo aumenterebbe anche il valore percepito dell’agricoltore e del contadino rispetto ad una filiera che emargina. E sarebbe possibile diminuire gli ettari di produzione, permettendo un’agricoltura più estensiva da un certo punto di vista. Tutto questo è più ecosostenibile: meno monocoltura, meno coltura intensiva. E di ciò che si produce, si riscopre il valore: quello della stagionalità per esempio. Trovando una melanzana tutto l’anno nei supermercati, questo prodotto nel periodo giusto ha un crollo del prezzo incredibile. Le eccessive quantità che arrivano in estate, poi, lo fanno scendere ulteriormente, fino a renderlo insostenibile per il produttore. Infatti c’è una soglia minima di raccolta sotto la quale il prodotto viene gettato via. Mi sono dilungato, ma il discorso è veramente molto ampio. È un problema mondiale. Facciamo sensibilizzazione sulla carenza di risorse, senza valutare però quello che sprechiamo. Quindi, quando diciamo che le risorse sul pianeta Terra sono limitate e non sappiamo come faremo ad alimentare 9-10 miliardi di persone nel 2050, pensiamo anche a come poter ottimizzare quello di cui disponiamo. Invece di cercare altro, deforestando o facendo interventi a forte impatto ambientale, valorizziamo ciò che abbiamo.

Leggi anche: “Il cibo non si butta”: Too Good To Go, l’app per la lotta agli sprechi alimentari

Il tuo metodo di coltivazione è integrato, una via di mezzo tra biologico e tradizionale. Cosa significa?

Il mio metodo è ancora poco conosciuto. È una procedura garantita da un disciplinare nazionale che mette in interazione le buone pratiche del tradizionale e i principi attivi migliori che si possono usare in questo tipo di agricoltura, con i trattamenti che vengono usati nel metodo biologico. In pratica si tratta di mettere insieme le due tecniche, prendendo gli aspetti più virtuosi di entrambe per creare un’agricoltura più sostenibile. Da un certo punto di vista il biologico ti permette di tenere sotto controllo gli eccessivi trattamenti rameici, dall’altro punto di vista ci sono le buone pratiche. Determinati prodotti naturali aiutano la pianta, avendo una chimica ad essa più complementare, così si possono ridurre concimazioni, interventi e anche trattamenti molto inquinanti. Nel metodo integrato c’è quindi un disciplinare a parte, che esclude alcuni principi attivi dell’agricoltura tradizionale e ne integra, appunto, altri. Alcune pratiche sono accettate ma non obbligatorie, come nel biologico. È un metodo di agricoltura più flessibile. Mi piacerebbe che più aziende tra quelle che ancora seguono il tradizionale si avvicinassero a un’agricoltura più sostenibile e passo passo portarle al biologico. O dove piacerebbe arrivare a me, a un’agricoltura sinergica e rigenerativa. Farò delle sperimentazioni in questo senso nei prossimi anni!

La battaglia contro lo spreco infatti ha anche ragioni di ordine ambientale: coltivare inquina e consuma risorse. Oggi sappiamo che ogni prodotto non solo genera CO2 durante tutto il suo ciclo di vita, ma richiede il consumo di acqua, lasciando anche un’impronta idrica che incide pesantemente sul cambiamento climatico. Produrre cibo che non finirà mai su una tavola vuol dire sfruttare inutilmente il Pianeta. Secondo le stime dell’ISPRA il settore dell’agricoltura in Italia da solo emette ben 33 milioni di tonnellate di CO2 ed è, dopo quello dell’energia, il secondo responsabile delle emissioni di gas serra nazionali. Questa stima però include solo le emissioni di gas serra associate alla prima fase della filiera agroalimentare, ovvero quella in campo. Se facciamo un passo avanti e analizziamo quelle associate alla filiera agroindustriale, cioè generate dal processamento dei prodotti, dal trasporto e dal packaging, avremo che questa è responsabile del 20% delle emissioni italiane di gas serra. Questi dati mettono in evidenza il peso della produzione agroalimentare sull’ambiente, solo nelle prime due fasi della filiera. Un notevole sfruttamento di energie per poi scoprire che, in Italia come nell’Unione Europea, il 40% del cibo prodotto viene sprecato. E una volta che un prodotto alimentare viene gettato via, a tutta l’anidride carbonica emessa inutilmente per la sua produzione bisognerà sommare quella associata allo smaltimento nelle discariche, che costituiscono la maggiore fonte di emissioni di metano.

Il cibo non è più un bene primario

Dietro lo spreco c’è poi un motivo di tipo psicologico: la perdita di valore del cibo. Dopo anni di industrializzazione agricola, la diminuzione dei prezzi degli alimenti è stata inarrestabile. Questo fenomeno ha sorretto le speranze di chi credeva che sarebbe stato possibile nutrire tutti gli abitanti del Pianeta. Tutti facciamo ogni giorno attenzione a non sprecare ciò a cui attribuiamo importanza: tempo, soldi, talento. Eppure, sprechiamo moltissimo cibo. La facilità con cui possiamo acquistarlo ha fatto sì che ne se ne perdesse il valore, rendendolo un bene generico ed effimero, non più una risorsa da conservare e difendere. Leggi anche: Napoli, Costa Crociere dona i pasti non consumati al Banco Alimentare

Da produttore, come valuti quest’atteggiamento del consumatore?

Altro tema importantissimo. Il cibo è scontato, sia da un punto di vista economico sia psicologico. È buono, c’è sempre e a poco prezzo. Questo è dovuto a due carenze. Una è del settore primario, che non è riuscito a valorizzarsi abbastanza sul territorio. L’altra è il valore che assumono nelle nostre vite i beni apparenti: il cellulare, la macchina, i vestiti. I soldi vengono usati più per sembrare belli fuori che per stare bene dentro. Quindi credo sia questo il trend da cambiare: capire che mangiare bene più che vestirsi bene ti porta a vivere più a lungo e meglio. Se dai valore a ciò che mangi, ti sembrerà un peccato buttarlo via. Quando si acquistano alimenti bisognerebbe fare la spesa giorno per giorno. Non è buono farne una mensile, come dovesse arrivare da un momento all’altro una guerra. Perché acquistando così si getta via almeno un 20% di ciò che è stato comprato, non tutto verrà consumato. È una buona abitudine invece acquistare giorno per giorno, in maniera mirata e sostenibile, stando attenti anche alla propria economia, perché sprecare cibo è anche uno svantaggio economico. Mangiare sano, equilibrato e senza esagerare penso sia uno stile di vita verso il quale tutti dovremmo tendere. Sembra molto semplice a dirsi, ma è complesso riuscire ad arrivare a tutti i livelli della società.

‘Save Food’, il piano europeo contro lo spreco

Data la dimensione e la complessità del problema, c’è bisogno della collaborazione di molti soggetti e molte istituzioni, perché nessuna organizzazione da sola può ottenere risultati importanti. Save Food è l’iniziativa globale volta a ridurre le perdite e gli sprechi alimentari guidata dalla FAO in associazione con Messe Düsseldorf. Save Food si rivolge a reti di stakeholder dell’industria, della politica, della ricerca e della società civile, incoraggiando il dialogo tra gli enti e aiutando a elaborare delle soluzioni per migliorare la filiera alimentare. Anche Boer nel suo piccolo ha provato a limitare gli sprechi. Ed è la sua iniziativa che ce lo ha fatto conoscere. Domenica 22 settembre ha invitato le persone a raccogliere nel suo campo verdura che altrimenti sarebbe andata sprecata dopo mesi di lavoro e sfruttamento di energie. Leggi anche: Milano: no agli sprechi alimentari con il progetto “Non si butta via niente”

Qual è stata la risposta alla tua iniziativa? Sono stati in molti a venire?

C’è stata un’ottima risposta. In campo è terminato tutto e ne sono stato molto contento. Non si è sprecato niente. Di prima mattina sono arrivate persone super organizzate. Venivano a caricare con le ‘tine’ e camioncini e hanno portato via un sacco di roba, lasciando poco e niente in offerta. Durante la mattinata invece le persone hanno raccolto meno, poiché c’era sempre meno da prendere, ma hanno lasciato più volentieri offerte nel salvadanaio che avevo lasciato per chi avesse voluto dare un contributo. Forse a fine giornata non ho raccolto più di 200/300 euro, ma considerato il valore di quello che c’era in terra, il lavoro per raccoglierlo e il mercato che non l’avrebbe accettato, molto raccolto sarebbe andato buttato via in un secondo momento. Quindi direi che non è andata male! Inoltre, molte persone mi hanno scritto da diverse zone d’Italia rammaricandosi di essere troppo lontane per partecipare alla mia iniziativa. Ho consigliato loro di rivolgersi ad altri contadini delle loro zone, perché quello di cui parlo rientra in una media nazionale. Non è solo il mio caso, è un discorso generale che si estende a tutta l’Italia.

  Di Elza Coculo

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Elza Coculo, 30 anni, di adozione romana. Lettrice appassionata con formazione in Studi italiani. Laureata in Editoria e Scrittura. Redattrice per Il Digitale. Amo scrivere di attualità e cultura eco-sostenibile.
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