Deja vu, quella sensazione del “Ehi aspetta, qui ci sono già stato!”

Capita a tutti e ha da sempre affascinato esperti e cultura esoterica: il déjà vu è una sensazione straniante e improvvisa che lascia perplessi. Eccone svelati i misteri.

Enrica Vigliano
Enrica Vigliano
Enrica Vigliano, romana per adozione. Lavora nel mondo dell’arte e della comunicazione di eventi, dopo gli studi di Archeologia e di Business dei beni culturali. Adora parimenti la matematica e la grammatica, avendo una predilezione per le parole crociate e per la vita all’aperto.
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Vi capita mai quell’impressione di aver già visto una scena, essere già stati in un posto, aver già avuto una conversazione? In tutti questi casi è molto probabile che abbiate esperito un deja vu!

Molti di noi, spesso inconsapevolmente, hanno provato quella strana sensazione di anomala familiarità con un’immagine, un suono, una sensazione, anche se ripercorrendo con la mente i propri ricordi non riusciamo a collocare nello spazio e nel tempo il momento in questione.

Che cosa significa avere un deja vu, quando avviene e chi ne soffre

deja vu significato

Il déjà vu, che in francese significa già visto, è propriamente un disturbo neuropsicologico che produce in chi lo sperimenta una sensazione insolita, come se stesse rivivendo negli stessi termini e nelle stesse modalità un’esperienza non ancora accaduta o presente. Sembrano delle allucinazioni o falsi ricordi che si verificano quando facciamo, diciamo o vediamo qualcosa di cui si ha la sensazione di averla già vissuta, anche se in realtà si tratta di qualcosa che non è mai accaduta.

Ne soffre una fetta che va dal 30 al 96% della popolazione ed è particolarmente frequente intorno ai 30 anni, dopodiché tende a diminuire. Lo “straniamento” può durare una manciata di millisecondi, dai dieci ai trenta, ma in alcuni casi arriva anche a mezzo minuto. A causarlo può essere la stanchezza o lo stress.

Tipi di déjà vu

Sulla scia di quanto detto, possono essere distinti alcuni tipi di deja vu in base alla sensazione che suscitano e in particolare in base al tipo di esperienza sensoriale coinvolta.

Come per il più noto, sono espressi in lingua francese:

Déjà rêvé

Già sognato, quando si ha l’impressione di aver sognato in passato una situazione che si sta svolgendo in quel determinato momento.

Déjà senti

Già sentito, quando si ha la netta sensazione di aver già ascoltato in passato una musica o una conversazione.

Déjà véçu

Già vissuto, quando si ha l’impressione di aver già esperito un momento nella sua interezza.

Déjà visité

Già visitato, quando giungendo in un luogo del tutto nuovo e sconosciuto si ha l’impressione di esserci già stati e di ricordarne anche i dettagli.

Jamais vu

Mai visto, il contrario di deja vu, quando consciamente sappiamo di aver già vissuto.

Il déjà vu nella cultura popolare

Non abbiamo già discusso di questo tema con queste esatte parole? Ma non ci sono già stato qui? Non ho già visto questo panorama da qualche parte?

Tutte queste domande accompagnano la sensazione, per molti inquietante o sorprendente, del “già visto”.

Per molto tempo i déjà vu hanno avuto nella cultura popolare un significato di:

  • premonizione
  • messaggio divino
  • eco di vite precedenti e manifesto della reincarnazione
  • contatto con mondi paralleli
  • presagio spesso di eventi nefasti e inaspettati

Un alone di mistero e di poteri paranormali ha infatti da sempre accompagnato la sensazione del deja vu, proprio a causa della sua natura fugace e inafferrabile, anche se si stima che circa il 60-80% delle persone in buona salute abbiano avuto, almeno una volta nella vita, questa strana esperienza.

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La storia del déjà-vu

La prima menzione storica di un deja vu è riferita a sant’Agostino che lo definì come “falsae memoriae” nel 400 d.C., anche se l’espressione francese scritta anche dejavu o déjà-vu si trova solo nel 1876, nella Revue Philosophique di Emile Boirac.

Il primo caso di studio che affascinò il mondo scientifico solo vent’anni più tardi fu quello di un giovane di 34 anni che, ripresosi dalla malaria, riferiva di avere un vago sentore di aver già vissuto innumerevoli episodi della sua vita, compresi quelli che per loro stessa natura non avrebbero potuto essere replicati, come l’assistere al funerale di Pasteur.

Da allora in avanti psicologi e neuropsichiatri si sono misurati sulla natura e sul meccanismo del deja vu, producendo una serie di teorie in merito.

Come avviene il deja vu: le varie teorie a riguardo

deja vu_immagine riflessa

L’ipotesi più accreditata fino a qualche anno fa stabiliva che il “già vissuto” fosse una sorta di falso ricordo, una proiezione che erroneamente collochiamo, invece che nel futuro, nel passato.

Questo tipo di percezione era da annoverarsi tra le paramnesie, ossia l’insieme dei disturbi della memoria che agiscono sui ricordi e sulla modalità in cui il nostro cervello li evoca, come le più note amnesie e le meno comuni allomnesie e pseudomesie.

Gli esperti e gli scienziati hanno provato a replicare in laboratorio il déjà vu servendosi dell’ipnosi, come nello studio del 2006 del Leeds Memory Group, o della realtà virtuale, con sovrapposizioni di immagini simili per poter ingannare il cervello dei partecipanti ai test.

Via via è emerso che il dejà vu ha solo in parte a che fare con la memoria, escludendo quindi l’ipotesi del falso ricordo.

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Deja vu ed epilessia

Una delle malattie della corteccia prefrontale su cui si sono concentrati gli studi è dapprima la schizofrenia e poi l’epilessia del lobo temporale, poiché molti dei pazienti affetti da tale patologia riferiscono frequenti sensazioni di dejà vu, spesso identificato come un segnale dell’arrivo di una crisi.

Il dejà vu su soggetti sani, infatti, agirebbe come una minuscola crisi epilettica, dovuta a un’alterazione delle reti neurali e delle sinapsi.

Fino al 2012, la letteratura neuroscientifica riteneva la persona sana che aveva continui dejà-vu nascondeva una probabile vulnerabilità biologica per una forma pre-clinica di epilessia. Questa visione del déjà-vu come connesso strettamente a una patologia è stata smentita dall’Istituto di Neurologia dell’Università Magna Grecia di Catanzaro che, nel 2015, ha dimostrato una fondamentale differenza neurobiologica tra le varie forme di déjà-vu. Da una parte ci sono déjà-vu dei pazienti epilettici derivanti da un danno organico consistente dalla perdita di materia grigia significativa nella corteccia visiva e nell’ippocampo, sede dei ricordi, e dall’altra i déjà-vu delle persone sane che hanno solo piccole variazioni anatomiche in un’area cerebrale capace di convogliare tutte le informazioni sensoriali.

Teoria degli ologrammi

Questa teoria si basa sulla convinzione che il nostro cervello conservi le memorie in forma di frammenti: ognuno di questi sarebbe in grado di rievocare l’immagine intera per esigenza di spazio di archiviazione.

In questo caso il deja vu sarebbe una rievocazione di un ologramma, un insieme di frammenti che il cervello collega pur appartenendo a ricordi diversi, per crearne uno al tempo simile e diverso, insolitamente familiare perché di fatto non è mai esistito.

Un esempio. Entri nella casa nuova di un tuo amico e ti sembra di esserci già stato. Il tappeto, la disposizione dei mobili, i piatti della cucina. Deja vu? In realtà la tua mente sta attingendo a una serie di informazioni viste in altre case, negozi e persino pubblicità di arredo, restituendoti un ricordo familiare che in realtà non hai.

Teoria dell’attenzione divisa

Secondo questa teoria, a causare il deja vu sarebbe un black-out dell’attenzione dovuto a due percezioni simultanee che si sovrappongono, modificando il meccanismo di memorizzazione. Quando l’attenzione viene ripristinata, rimarrebbe il ricordo confuso e familiare di ciò che in realtà i sensi nel frattempo hanno rilevato.

Nell’esempio di prima, notando il tappeto che avevamo già visto in negozio e focalizzando l’attenzione su questo, con la visione periferica stiamo registrando tutti gli altri elementi della casa ma ce ne rendiamo conto solo dopo essere tornati “consci”, ed ecco perché ci sembrano familiari.

Un bug di sistema?

deja vu matrix film

Un déjà-vu è un’imperfezione di Matrix, capita quando cambiano qualcosa…così i fratelli Andy e Larry Wachowski nel film che li ha consacrati alla fama spiegavano la natura di quello che potremmo chiamare in italiano “momento già visto” a un inesperto Neo alle prese con la comprensione della realtà, fino a quel momento sconosciuta.

Parafrasando la frase di Trinity, il déjà vu è stato visto come un errore di sistema, una falla della struttura, un punto in cui gli anelli della maglia sono lenti.

E sebbene nel 1999 le certezze sul perché e sulla natura del déjà-vu fossero ancora vaghe e la loro fosse un’ipotesi da fantascienza cyberpunk, i due registi si sarebbero avvicinati moltissimo alle recenti scoperte in merito. Chissà, che siano stati guidati da un déjà-vu?

Teoria amnestica e deja vu

Alcuni studi in materia hanno suggerito che il deja vu possa essere un errore di immagazzinamento della memoria.

Di solito le informazioni che riceviamo dalle esperienze esterne, attraverso i sensi, passano prima dalla memoria a breve termine per poi fissarsi, attraverso processi di selezione e verifica, in quella a lungo termine.

Se per un glitch, come quello di Matrix, le informazioni finiscono direttamente nel secondo “serbatoio” di ricordi, ecco che al presentarsi di una situazione analoga si può innescare la sensazione di dejavu.

Teoria del ritardo della trasmissione neurale

In questa teoria il deja vu sarebbe causato da uno scarto di trasmissione tra un nervo e l’altro.

Il ritardo di segnale porterebbe prima la sensazione di familiarità al cervello e poi la percezione del momento attuale, motivo per cui si parla di sensazione di premonizione.

Altri studi

Un altro pool di esperti ha analizzato la corteccia rinale, implicata insieme a quella prefrontale anche nei processi di formazione della memoria episodica, che si attiva in risposta a uno stimolo recepito come familiare. Una disfunzione momentanea di questa regione potrebbe innescare l’area anche senza che lo stimolo percepito sia effettivamente supportato da un ricordo.

Con sorpresa di molti, un’indagine condotta su 21 volontari da Akira O’Connor, ricercatore dell’Università di St. Andrews in Inghilterra, tramite risonanza magnetica ha evidenziato che, contrariamente a quanto ci si aspettasse, le aree del cervello che si attivano nell’induzione di un deja vu non sono quelle deputate strettamente alla memoria, come l’ippocampo, bensì quelle coinvolte nei processi decisionali.

Il deja vu sarebbe dunque il risultato dello scanning, quasi una deframmentazione della nostra mente che trova un controsenso tra quello che ricordiamo e quello che pensiamo di ricordare.

In poche parole, il cervello rileva un conflitto, una situazione che assomiglia a un qualcosa che non è chiaramente collocato nel database della memoria, e manda un segnale, un deja vu, per assicurarsi che tutte le informazioni siano al loro posto e che la materia grigia non sia stata in qualche modo danneggiata.

A supporto di questa teoria, l’evidenza che il déjà vu è molto più comune tra i giovani che non nelle persone di una certa età, la cui memoria tende a deteriorarsi.

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