Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio: salvare una vita è possibile

Tonia Samela
Tonia Samela
Tonia Samela, nata a Potenza nel 1994. Psicologa Clinica e Dottoranda di Psicopatologia del Comportamento, attualmente conduce la sua attività di ricerca a Roma. È attiva nella promozione della salute e nella divulgazione scientifica del sapere psicologico.
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A Stoccolma nel 2003 è stata lanciata per la prima volta un’iniziativa nota come World Suicide Prevention Day, Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio. Questa ricorrenza in origine è stata promossa dall’AISP, Associazione Internazionale per la Prevenzione del Suicidio, e in seguito riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Da allora, ogni anno in tutto il mondo, il 10 settembre vengono promosse iniziative volte a sensibilizzare la popolazione sulla tematica della prevenzione del suicidio e sulla promozione della salute mentale. I dati al livello globale indicano che questo fenomeno è in crescita soprattutto nei paesi ad alto tasso di industrializzazione. Secondo l’OMS, nel mondo avviene un suicidio ogni 40 secondi circa, per un totale di 880.000 persone in un anno. Il suicidio è fra le tre principali cause di morte per le persone di età compresa tra i 15 e i 44 anni, insieme agli incidenti stradali e alle malattie cardiovascolari. Per quanto riguarda l’Italia, l’ISTAT ci informa che è anche un fenomeno non gender-neutral: ogni 100 mila abitanti ci sono 10,4 suicidi di uomini e 2,8 di donne. Il Nord-est presenta i livelli di mortalità più elevati, il Sud quelli più contenuti. Il suicidio è inoltre un fenomeno a spiccata stagionalità: sono maggio, giugno e luglio i mesi più critici. Secondo numerose ricerche la patologia psichiatrica è una condizione spesse volte necessaria ma non sufficiente per il suicidio, anche se è vero che solo una piccola parte dei soggetti che si tolgono la vita non presenta sintomi psichiatrici prima della morte. Dai resoconti dei tentativi o dei suicidi compiuti, infatti, si comprende come i disturbi dell’umore ─ come depressione, disturbo bipolare, ma anche mania o disturbi da abuso di sostanze ─ siano molto frequenti tra la popolazione a rischio. Più frequentemente è la depressione, sia monopolare che bipolare, a essere diagnosticata in chi compie atti parasuicidari, vale a dire ideazioni suicidarie e comportamenti autolesivi. La perdita di speranza nei confronti di se stessi, del mondo, del futuro e la presenza costante di un sentimento di disperazione possono facilmente portare la persona depressa a vedere nel suicido l’unica strategia possibile. Tutto ciò a fronte di un dolore percepito come insormontabile o di un vuoto insostenibile. Leggi anche: Cancro: perché lo psicologo può fare la differenza

Come si arriva a un gesto così estremo?

La persona in difficoltà spesso vive un senso di solitudine e un’esperienza di sofferenza riferita all’assenza di reciprocità, di cura e di affetto da parte degli altri. Molto spesso però questo senso di trascuratezza e abbandono è riconducibile a un aumentato bisogno di sostegno da parte della persona in difficoltà, senza che essa stessa sia effettivamente in grado di comunicarla. Inoltre i conflitti familiari, la mancanza di un impiego e la presenza di malattie sono i principali fattori di rischio che portano le persone a convincersi, anche se irrazionalmente, di essere un peso per la propria famiglia o comunque un componente sacrificabile. È importante specificare però che il desiderio di morire non è sufficiente a produrre un suicidio. Portare a compimento l’atto spesso richiede una serie di comportamenti non letali che precedono un tentativo vero e proprio e che, grazie alle ripetute esposizioni al dolore, rappresentano una sorta di graduale allenamento alla paura di morire e alla sofferenza fisica. Da tutto ciò si può comprendere come in realtà la depressione non sia necessariamente l’anticamera dei comportamenti suicidari. Il rischio, però, esiste ed è concreto, quindi è molto importante non trascurare la sofferenza mentale delle persone a noi care attraverso la ricerca di un aiuto fornito da personale qualificato, in grado di gestire la situazione e mettere in atto le dovute strategie di sostegno psicologico. In questo percorso, l’attivazione della rete familiare e amicale della persona in difficoltà è indispensabile: la depressione è prima di tutto una malattia che annienta la volontà. Non si può sperare di ottenere alcun risultato facendo leva sulla motivazione della persona in difficoltà. A nulla servono gli incoraggiamenti o gli ammonimenti: non si può chiedere uno “sforzo di buona volontà” a una persona cui ciò che manca – perché momentaneamente indisponibile – è proprio la volontà stessa. La persona che presenta tali difficoltà ha bisogno di essere ascoltata attentamente e con calma. Occorre non interrompere il racconto. Durante un episodio depressivo non si assiste soltanto a un abbassamento del tono dell’umore, anche le attività fisiologiche e le capacità cognitive rallentano: affrettare il passo non serve a nulla, è anzi controproducente, dà alla persona che soffre la percezione di essere incapace di sostenere una conversazione. È inoltre necessario esprimere rispetto per le opinioni della persona in crisi, anche se sembrano irrazionali. La persona che le sta esprimendo sta dando voce alla sua sofferenza ed essa è non condivisibile proprio perché manca di ragionevolezza, in quanto espressione di malattia. Probabilmente quella sostenuta con una persona affetta da depressione non sarà una conversazione semplice, anzi, probabilmente vi lascerà addosso un senso di oppressione, impotenza e insostenibilità. Queste brutte sensazioni saranno dovute al fatto che starete avendo appena un assaggio di come quella persona si sente costantemente. A questo punto, per uscire da una sensazione così sgradevole e supportare la persona che si sta aprendo occorre esprimere la propria vicinanza e la propria solidarietà. Bisogna evitare invece di esprimere disagio o imbarazzo nei confronti della conversazione ─ il protagonista della storia non è chi sta ascoltando! ─ non dare giudizi e soprattutto non dare ordini e non obbligare l’altro a fare qualcosa. Infine è utile non dare l’impressione di essere spaventati o preoccupati, non fare troppe domande o affermazioni intrusive o allusive: non è questo il momento di essere curiosi. Leggi anche: Andare dallo psicologo è ancora un tabù: 5 miti da sfatare

Suicidio: miti da sfatare

Innanzitutto, non è vero che le persone che parlano del suicidio non lo commetteranno. Numerosi studi affermano il contrario. Effettivamente alcune persone, per quanto premeditino il gesto estremo, non ne fanno parola con nessuno, ma non bisogna pensare che sia una regola generale. Inoltre, non è evitando di parlare del suicidio, delle condotte autolesive o dei pensieri suicidari che si risolve il problema: parlarne apertamente può aiutare le persone a rischio a cambiare idea. La malattia mentale non sempre è l’unica spiegazione. Abbiamo parlato del fatto che le persone affette da disturbi dell’umore spesso presentano un rischio più alto di compiere comportamenti suicidari, molti studi indicano tuttavia che non tutti gli individui che si suicidano hanno disturbi psichici. Molte persone inoltre hanno pensieri ambivalenti sul vivere o morire, non tutti sono davvero convinti di voler abbandonare la vita, per cui lasciano agli altri il compito di salvarli, pur non elaborando quasi mai richieste esplicite in merito. Il suicidio è un fenomeno trasversale, non colpisce più i ricchi o più i poveri. È vero tuttavia che quando una star commette un suicidio o si ammala di depressione, essa ottiene maggiore rilevanza mediatica per cui il fenomeno tra i Vip sembra essere amplificato, ma statisticamente non è così: tutti possiamo ammalarci, tutti possiamo ricevere aiuto, sostegno e ritrovare una dimensione di salute. Infine, occorre eliminare la convinzione che una persona suicida lo rimane per sempre. La malattia mentale non è permanente, e non è permanente il desiderio di morire. L’idea contraria, oltre che essere scientificamente non valida, alimenta lo stigma e accresce il senso di impotenza, esattamente l’ultima cosa di cui le persone che soffrono hanno bisogno. Esistono protocolli appositi, validati a livello internazionale, per sostenere le persone ammalate di depressione o che stanno avendo pensieri incompatibili con la vita. La presa in carico della persona ammalata da parte della famiglia e della rete amicale è fondamentale ed è spesso l’unico modo possibile per permettere ai professionisti della salute mentale di raggiungere i bisogni della persona sofferente. Non mancano nel corso della storia passata e recente testimonianze di persone che sono riuscite a ritrovare la motivazione e il benessere nonostante le difficoltà e la malattia. La salute mentale riguarda tutti noi e molti passi avanti sono stati fatti nella lotta contro i disturbi mentali. Il primo canale di sensibilizzazione rimane l’informazione e il passo successivo riguarda la buona prassi. Con un po’ di attenzione e coraggio salvare vite è possibile. Leggi anche: Cos’è la resilienza, la capacità di ricominciare di Tonia Samela

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