L’intervista al comico Ubaldo Pantani: “I personaggi ti succhiano l’anima”

Abbiamo dialogato con il comico Ubaldo Pantani, ci ha svelato il rapporto con i suoi personaggi e la funzione della risata tra guerre, pandemie e predominio tecnologico.

Silvia Buffo
Silvia Buffo
Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.
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Parola a Ubaldo Pantani, professione attore comico, nello specifico imitatore, un’intervista per esplorare la persona nell’artista e l’artista nella persona. Le origini e gli esordi negli anni ’90, il rapporto con Boncompagni, la trasmissione cult Macao, l’esplorazione dei confini del proprio talento. Ed ancora il sogno di interpretare Gigi Sabani, lo sguardo al futuro, i personaggi che assorbono l’io come una spugna e a cui devi dare sempre tutto, la sofferenza del comico e il ruolo della comicità nell’era digitale post-pandemica. Ridere rimane una cosa serissima. Viva gli artisti.

L’intervista esclusiva a Ubaldo Pantani

Quanto può incentivare la creatività nascere dentro o fuori dal contesto grande città-metropoli?

Verdone è nato a Roma, Nuti a Prato, Dario Fo a Milano, Carmelo Bene a Campi Salentina. Andando sul mio genere, Sabani è nato a Roma e Noschese a San Giorgio a Cremano. La creatività non ha a mio avviso un habitat naturale. lo sono cresciuto, per esempio, in un villaggio operaio della Solvay, come il mio babbo, che ci lavorava. Un villaggio globale prima del villaggio globale.

Un‘esperienza surreale che racconto nel mio spettacolo teatrale e senz’altro mi ha stimolato ma, se non fossi entrato in contatto con le grandi città, non sarei quello che sono oggi. Certamente per crescere in un paese di cinquecento anime ti devi guadagnare tutto, non potendo contare sulla sovrastruttura di una città come Milano o Roma, ti fa adattare meglio a qualsiasi posto.

Hai chiamato ‘maestro’ il dimenticato Gigi Sabani, perché invece meriterebbe di essere ricordato? Enzo Tortora ha avuto una parabola mediatica migliore…

Perché è stato uno straordinario innovatore nel portare in TV le imitazioni senza ricorrere al trucco, ha spazzato via un altro grande maestro che è stato Noschese e ha avuto il merito di dare una faccia all’imitatore, rendendolo più comico che interprete. Mi piacerebbe interpretarlo in una biopic su di lui, ma i registi non si fidano, temono l’imitazione. Enzo Tortora ha avuto una parabola mediatica migliore, sono due casi simili e diversi. Li accomuna una grande storia di sofferenza.

Ubaldo Pantani ha una laurea in Scienze Politiche, come quelle competenze si sono in qualche modo e involontariamente incanalate nel mestiere dell’attore comico?

Qualcosa senz’altro, anche se non so bene percepire cosa. Di fatto il mestiere del comico attinge alle stesse caselle con le informazioni che usiamo per sopravvivere e aver avuto la fortuna di incontrare professori formidabili mi ha stimolato senza dubbio l’attivazione di un maggior numero di caselle che poi sono quelle che ti permettono di essere più veloce, soprattutto nell’improvvisazione.

Avendo fatto Scienze Politiche a Pisa con il vecchio ordinamento, una facoltà più tosta di quello che talvolta ingiustamente si pensa, ho approfondito molto di più le materie dell’indirizzo sociologico nel triennio di specializzazione, e forse sono quelle che mi sono state e continuano a essermi molto utili per orientarmi anche nel mio lavoro e capire come gestire il cambiamento del mercato, requisito indispensabile per rimanere al passo con i tempi.

“Il talento emerge senza fatica”, molti psichiatri lo sostengono. Quando il lavoro lo fai con naturalezza e il sacrificio non pesa, vuol dire che è il tuo… è un giusto parametro?

Sono d’accordo. Credo che il treno passi più di una volta. Spesso quando ripassa siamo già fuori dalla stazione, perché disillusi. Il rovescio della medaglia di un talento che emerge senza fatica è però la tendenza che il possessore ha di dargli poca importanza e considerarlo banale. Invece credo che noi tutti dovremmo fare proprio questo.

Cogliere il segnale che ci inviano gli altri, che poi sono quelli che ci danno l’identità: quando ci dicono bravo o brava a fare qualcosa spesso è quello per cui siamo venuti al mondo a fare. Poi possiamo testardatamente incaponirci a fare quello che non ci viene naturale, ma è uno sforzo enorme che solo pochi hanno la forza di sostenere.

Io invito sempre, quando parlo con gli attori e le attrici della mia scuola, a seguire quello che chiamo il principio della pigrizia: fai quello che impieghi meno fatica a fare. Spesso quello è il tuo talento. Accettalo, amalo, curalo. Ti darà enormi gioie.

Quando e come l’incontro con Boncompagni ha potuto rappresentare un tuo “inizio”? Ed è vero che Macao, la trasmissione cult degli anni ’90, era controcorrente e innovativa?

Io devo moltissimo a Boncompagni. Prima d’incontrarlo, avevo fatto solo gli stages teatrali con Albertazzi e gli spettacoli amatoriali nel mio paese. E pur amando Freak Antoni e gli Skiantos e, avendo fatto da bambino le imitazioni di Sabani e dei personaggi del paese, non mi ero mai cimentato con la comicità.

Quando lo incontrai al provino, gli proposi un personaggio folle, uno ieratico profeta del Kàbaret che proponeva “la necessaria dilatazione del tempo battuta-risata”. Lui mi fece improvvisare mezz’ora, facendomi domande sul cabaret norvegese. Lo convinsi tra il gelo degli astanti. Mi prese e, seppur con un altro personaggio, un’archeologa americana svampita, debuttai in TV. Macao fu innovativo e provocatorio, perché Boncompagni lo era.

Ubaldo Pantani e Alba Parietti nella trasmisisone Macao.

Quali sono state le altre collaborazioni edificanti?

Quella con Stefano Sarcinelli, uno degli autori del programma, che vorrei ringraziare. Non l’ho mai fatto, ma è stato uno di quelli che ha creduto in me da subito, nonostante la mia allora presuntuosa follia di giovane comico che voleva fare avanguardia (ride).

La collaborazione più longeva, tuttavia, è con Walter Fontana, autore storico con il quale scrivo da anni. Oltre che un amico, lo considero il mio maestro per la scrittura. Quando è venuto a vedermi a teatro, dopo aver passato anni a parlare di comicità, testi, spettacolo, calcio romantico e vita vissuta, mi sono emozionato. Era come se avessi di fronte uno di famiglia. Mi succede solo con gli amici veri, quelli che sono nell’elenco delle chiamate rapide e solo con il nome di battesimo. Nelle altre date, Fabio e Giovanni c’erano comunque.

E Lapo ti ha telefonato… ? La prima cosa che ti ha detto, anche de visu

Lapo lo conobbi già dopo la prima volta che lo feci con i Gialappi nel 2005. Non una telefonata, l’ho incontrato direttamente, un giorno mi presentò a sua sorella e suo fratello: “Lui è quello che mi prende per il culo”. Era la festa del suo compleanno e io mi sentivo come Fantozzi alla festa in montagna quando gli presentano gli illustri invitati! Lapo è molto autoironico, è una persona straordinaria e gli voglio molto bene.

Sono a disagio quando inevitabilmente, non volendo, qualche volta mi capita di toccare il suo passato. Per fortuna adesso la mia imitazione va aldilà del personaggio reale e riferimenti alla sua vita sono pressoché inesistenti. Lapo, come tutti noi, è un’altra persona rispetto a quando ho iniziato a farne la parodia. Oggi il mio personaggio è più la caricatura sui generis di un ricco imprenditore gaffeur, ma rispettoso di tutti e entusiasta della vita.

Quale ritieni sia il ruolo della comicità nell’era digitale e dell’interconnessione? Di per sé il mondo digitale, nello specifico per il tuo genere artistico, è una sorta di amplificatore, se tutto non è ridotto a un meme.

Questa non è una domanda, è un armamentario di spunti per tre tesi!
L’era digitale ha ridotto la capacità di attenzione e la comicità si è adattata, contraendo i tempi degli sketches, sui social come in TV, spesso riducendosi a battuta fulminante. Ma questo processo non ha intaccato le esibizioni live. La capacità di intrattenere dal vivo, hic et nunc, rimane la situazione dove il talento emerge in tutta la sua potenzialità, proprio perché deve occupare più tempo e spazio.

Che funzione sociologica ha oggi la risata, tra guerre, pandemie e predominio tecnologico?

La risata che ha sempre un legame fortissimo con la morale e che è, dunque, sempre sanzionatoria, ha e avrà sempre uno spazio rilevante perché mettendo alla berlina gli altri ci fa sentire superiori. E il bisogno di sentirci superiori non morirà mai. Non credo tuttavia al mantra: viviamo in un mondo terribile, la gente ha bisogno di ridere. Sono 50 anni che va avanti questa storia, prima il terrorismo, poi la minaccia nucleare, poi la crisi finanziaria, poi la pandemia. Ogni epoca ha i suoi disastri, la comicità viene spesso usata come rifugio per non pensare a quello che ognuno di noi potrebbe fare meglio.

Sulla famosa sofferenza del comico, che anche i più grandi hanno provato, da Chaplin a Proietti, cosa senti di poter dire?

Che sono in buona compagnia. Ne ho sofferto moltissimo. Ho impiegato anni ad accettarmi come comico. Il terrore di pensare che la gente facesse il paragone ‘comico uguale persona che cazzeggia’ in ogni momento mi ha sempre attanagliato. Una fatica spaventosa. Chi mi conosce sa che sono un entusiasta della vita, un temibile Filini organizzatore di cene, feste, tornei, associazioni, fissato con gli sport.

Non il comico triste, insomma. Ma dover indossare la maschera del simpatico e del “facce ride’” in ogni situazione mi ha sempre pesato. Per questo in teatro mi sono sempre rintanato in progetti in cui non ero “il comico visto in TV che fa le imitazioni”, ma un’altra persona.

Il fatto di aver fatto uno spettacolo comico solo ora è la testimonianza di questo percorso di accettazione di sé. Ora sono pacificato con questo e apprezzo e mi diverto in ogni contesto lavorativo che accetto di fare, sapendo che ogni programma, media e audience di riferimento impongono il loro linguaggio e la loro misura. Parafrasando Dago, sono un uomo di centro. Palco.

L’imitatore è l’iperbole dell'”uno, nessuno, centomila”. Quando vai a letto la sera, finisci per sentirti più Ubaldo o Lapo Elkann, Massimo Giletti, Mario Giordano?

Nessuno di loro. Io non mi porto il lavoro a casa, a parte qualche lascito di colla dei trucchi sulla faccia, la recitazione è un gioco. Quando finisci, fai la doccia, ti cambi, esci e fai altro. Il personaggio ritorna quando inizio a pensare ai testi della puntata successiva.

Il problema di fare i personaggi è che tu non esisti. Esistono loro e basta. Tu sei il loro agente, ma nessuno vuole parlare con te. Quando incontri un fan la sensazione è quella di essere davanti la porta del camerino a intrattenerlo prima che esca il personaggio con il quale vogliono parlare. Ma è normale, il tempo che rubiamo agli altri in termini di attenzione deve essere sfruttato per fare la cosa che ci viene meglio.

Un bravo attore è quello che fa un giro del palazzo per entrare nel personaggio e quello che fino a un secondo prima di girare, cazzeggia. Quello che conta è solo quello che sai fare dopo il ciak.

Un aggettivo per ognuno di questi tre personaggi? E in cosa consiste il rispetto in questo lavoro?

Lapo, entusiasta. Giletti, ambizioso, Giordano, pirotecnico. Il rispetto è definito per legge, e ha i limiti della querela. A mio avviso, la regola da seguire è non infierire su un personaggio che si trova in un momento di estrema debolezza. E portare rispetto anche nel caso in cui questo personaggio, a parti inverse, non lo porterebbe a te. In generale, io cerco di non fare il leone, perché indosso una maschera.

Cerco di fare sì che la distanza tra quello che dico di un personaggio indirettamente, interpretandolo, e quello che gli direi se ce l’avessi davanti, non sia abissale. Perché il problema, facendo parte dello stesso ambiente, è che poi li te li trovi davanti. La lusinga come dice giustamente Beppe Grillo è quella che ti frega. Tu fai il figo sparlando di un personaggio poi lo incontri, ti fa un complimento e tu ti sciogli. Quello è il nostro tallone d’Achille. Di tutti pirandellianamente, direi. La vanità supera quasi sempre la permalosità.

Il futuro prossimo di Ubaldo Pantani… tappe, progetti artistici e personali, se vogliamo.

Il futuro, oltre alla TV, è un progetto su Freak Antoni che spero presto veda la luce e poi il teatro, il live. Non vedo di ricominciare con le date.

Leggi anche: Alessandro Gori è poeta della verità con il suo Canzoniere dei parchi acquatici

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