La poesia su Instagram, divisa tra narcisismo e disincanto

Cosa accade alla dimensione poesia sul social più egoriferito di sempre? A volte sopravvive in forma maleducata e ribelle, ma in grado di ispirare nuovi percorsi di libertà. L'intervista a Gabriele Scarpelli.

Silvia Buffo
Silvia Buffo
Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.
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La poesia, intesa come canonico genere letterario, ha ragion d’essere in Instagram? Abbiamo dialogato, con chi sul social più egoriferito di sempre, mastica versi spesso inevitabilmente sviliti dalla forza centrifuga dell’immagine e del suo predominio.

In tempi di guerra parlare di estetica e poesia sembra essere quasi anti etico, una trasgressione. Concediamoci un istante, solo un istante di sana evasione e dibattiamo di poeti su Instagram, di narcisismo, di prose a cascata, di disincanto e di edonismo. Eccole, le formule anarchiche di ribellione creativa, le formule maleducate e controcorrente, ma in grado di ispirare nuovi percorsi di libertà.

Abbiamo avuto il piacere di imbatterci in anteprima nel suo prossimo libro in uscita “Il banco aveva un quattro e io ho chiamato ancora”. Che dire? Osceno significa uscire “fuori dalla scena”, decentrare la visione delle cose.

Scarpelli lo fa per provocazione, per vezzo estetico personale, per catalizzare ludicamente solo su di sé, sul suo disagio, l’attenzione… guidato da un dogma di aspirazione alla libertà, nel paradosso di una narrazione intrisa di addizione: è un lattante insaziabile di un’interminabile poppata, fatta di solo ascolto e carezze, che implora in modo brutale, dissacrante, attraverso una nomenclatura in costante tensione tra il borghese e l’antiborghese, una terminologia esatta della crisi di benessere, di un lessico forbito di abitudini malsane.

Scarpelli attua il disprezzo di ogni forma di pudore, indugiando in se stesso e nella sua oscena introversione, così, allo stesso modo, anche l’orgoglio sarebbe un fardello per la sua narrazione, che piuttosto esaspera di patetismo per ostinata coerenza e, del resto, non sei abbastanza intelligente, sensibile, se l’orgoglio lo nutri banalmente, lo fai sopravvivere.

Lo svende, invece, volentieri a favore dell’onestà, del suo viaggio estetizzante/anestetizzante, palliativo, compensativo di un’inquietudine, che però non è borghese/antiborghese, ma è atavica, è il dramma dell’esistenza, connaturato in ogni essere umano, irrisolto e diviso dal logorio dell’impermanenza, di quell’imperfezione senza certezze che è la vita.

Scarpelli da del ‘tu’ a Dio come fosse un furfante, ma usa sempre le maiuscole per nominarlo invano, anche la parola Cielo è in maiuscolo. L’iter dissacrante dell’intera narrazione è farcito di slancio spirituale latente e dolcezza inattesi.

Parola a Gabriele Scarpelli, autore indipendente, ghostwriter e poeta, un po’ maledetto.

Poeti su Instagram, tra narcisismo e disincanto. L’intervista a Gabriele Scarpelli

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C’è davvero spazio per la vera poesia nella dimensione Instagram?

Questi “poeti dell’Instagram” mi sembrano quasi tutti così ingessati, così conformi alle norme dell’easy-like. Tuttavia se riescono a dormire sonni sereni e se la loro ricerca è insita esclusivamente nel raggiungimento di molti followers è giusto che continuino a esprimersi come meglio credono. La libertà deve appartenere a tutti, ahimè anche a loro.

Usi moltissimo la “prosa a cascata”. Perché è una delle tue formule preferite?

Qualche anno fa, grazie ad alcune attente riflessioni critiche dell’autore Paolo Pera in merito alla mia opera, sono giunto a definire il mio stile di scrittura una “prosa a cascata”. Ammiro molto il verso classico e la ricerca metrica, ma non fa per me. Per ora almeno. Ricerco immediatezza e velocità.

La prosa mi concede una maggiore libertà. Tuttavia non sono stato in grado di abbandonare la forma esteriore (non estetica) tipica della poesia. Non credo di aver inventato nulla. Molti americani ad esempio adoperano e adoperavano questo stile, solo che a me non piace chiamarlo propriamente poesia. Ritengo non sia corretto.

Un mood d’inquietudine, squisitamente contemporaneo, affiora nei tuoi versi, tu lo chiami “disincantismo”. Cosa vuol dire essere disincantisti?

Il disincantismo è forse una mera presunzione. Forse perché vuole sopraggiungere in soccorso a tutte le menti e i cuori saturi di “deve sempre farcela a ogni costo”. Qualche settimana fa discutevo con un critico letterario. Sosteneva che il disincantismo avesse di fondo una visione nichilista della vita.

Assolutamente no! Il disincantismo si basa piuttosto su un realismo esistenziale. Il disincantista vede e prende la vita così come gli si manifesta. Non si farcisce le sinapsi di baluzierie, né tantomeno si dispera. Sa che la vita in fondo non è affatto un granché, ma nel complesso non è nemmeno poi così male.

Cerca poi il modo migliore di esistere senza prendersi in giro con quei motivetti cancerogeni del “io sono forte – io valgo – io ce la faccio”. Se uno non ce la fa andrà benissimo così. Forzarsi nel diventare ciò che si vuole non ha portato a nulla di buono. Al disincantista piace ricercare la sua natura più autentica e se fortunato attenersi a essa “diventandosi”. Dunque: “Diventa ciò che sei” trascende il “Diventa ciò che vuoi”.

I tuoi versi possono annoverarsi in una sorta di eredità della poesia maledetta? Chi è il poeta maledetto d’oggi?

Credo che il maledettismo di fine ottocento, più che nei versi, si erigeva nei modi di vivere dei poeti. Da questo punto di vista non posso negarlo: fra molte dissolutezze conduco una vita molto distante dalla realtà. La ricerca del piacere è, per ora e per quanto mi riguarda, l’unica faccenda capace di dare un senso all’esistenza.

Ivana Posti, conduttrice torinese di un programma radiofonico, qualche anno fa mi fece visita presso l’hotel dove dimoravo per un servizio a me dedicato, incuriosita anche lei da questa presunta attitudine maledettista.

Il poeta maledetto oggi ha l’estraneazione dalla realtà come effetto collaterale di una ricerca senza fine. Per trovare pace si tentano diverse strade. Io ne ho provate numerose. In questa, per ora, sembra che tutto quadri al meglio. Di certo si deve essere disposti a eliminare una parola dal proprio vocabolario. Quella parola è: futuro.

Ci spieghi la tua provocazione del “narciedonismo”?

Il narciedonista è una sorta di edonista aggravato. Perché oltre alla ricerca del piacere non fa mistero di mettere se stesso al centro della sua ricerca. Inoltre, in un periodo dove per quasi ogni cosa si viene additati narcisisti, mi piace amplificarne la provocazione.

Una giornalista cuneese ha denifito la gente che ti gira attorno ‘cerchia scarpelliana’. Cosa ha significato per te questo aggettivo così identitario?

Lei si chiama Francesca Barbero. Una bravissima persona. Si è per un periodo presa a cuore la mia storia e quella dei miei “amici poeti” che vengono a leggere ai miei eventi e reading letterari. Quando lessi il suo articolo mi fece sorridere, perché proprio nello stesso giorno (se non ricordo male è stato pubblicato l’anno scorso poco prima dell’evento “Pinerolo Is The New Paris”) qualcuno che non ricordo mi disse: “Tu e la tua cerchia di amici scarpelliani ve la cantate e ve la suonate, egocentrici che non siete altro”. Non so se stesse scherzando, ma in fondo… come dargli torto?

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Leggi anche: Il Premio Letterario Manzoni va a una donna, Emanuela Fontana, insieme a Malaguti: “Vittoria ex aequo”

di Silvia Buffo

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Silvia Buffo
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Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.
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