Dall’università alla società della performance, quanto è nociva la competizione?

Gli effetti della competizione dai social all’università. Come migliorarsi senza sentirsi ultimi sotto il peso della valutazione. Il problema dei suicidi: un male profondo della nostra società.

Alfredo Polito
Alfredo Polito
Si occupa di copywriting, project management e comunicazione per imprese e istituzioni. Per anni ha scritto su la Repubblica ed è autore del libro "La guerra del vino". Tramite Gramsci ha fatto suo il motto di Romain Rolland: pratica il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà.
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A che velocità stiamo correndo nella società della performance? La sensazione diffusa è quella di dover recuperare, affannandosi, un tempo perduto. Continuiamo a vivere e lavorare gareggiando, in competizione incessante con qualsiasi altro essere umano, aspettando e temendo una valutazione. Ci sentiamo perennemente in ansia con i nostri innumerevoli competitor, ossia “chiunque altro”.

Da diversi anni, siamo immersi in un immenso flusso narrativo estenuante, l’universo dei social in cui il nostro peso specifico si misura a followers. Qui ci sentiamo costantemente valutati e avvertiamo l’esposizione come un dovere per adeguarci agli altri utenti: mostriamo su Instagram un’immagine eccessivamente perfetta che ci spinge a sentirci inadeguati.

Questa ricerca della perfezione è una strada a metà tra realtà e finzione che ci costringe a perseguire stili di vita ideali, incrementando in noi sensi di inadeguatezza e bassa autostima.

La parte negativa di essere costantemente connessi con la propria rete sociale è la FOMO (fear of missing out): paura di rimanere esclusi da esperienze gratificanti e il desiderio persistente di restare connessi per timore di rimanere esclusi da eventi, esperienze o contesti gratificanti dai quali si è assenti.

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Suicidi per eccellenza nel mondo dell’istruzione e nella società della performance

società della performance

A ciò si aggiunge un’ulteriore pressione, quella che subiamo nella società della performance, il cui scopo finale è dare un’immagine idealizzata di noi stessi: ognuno di noi “performer” ha bisogno di un pubblico che lo guardi e in qualche modo lo valuti. In questo senso, uscendo dal mondo social e passato a un contesto istituzionale, sarebbe anche opportuno ripensare ai metodi scolastici, da non basare su una valutazione attraverso il voto numerico, in modo da non far sentire gli studenti in continua competizione, ma con lo scopo di una più profonda comprensione dell’individualità.

Con un criterio didattico del tutto differente, dall’impostazione tradionale e ancora attuale, i professori possono spiegare agli allievi come migliorarsi e su quali aspetti sarebbe meglio lavorare di più. La competizione è promossa sin dalle elementari nelle scuole italiane.

Voler raggiungere per forza l’eccellenza porta sempre più studenti a suicidarsi, non riuscendo a reggere il peso della pressione sociale che ci vuole sempre perfetti.

I suicidi da da un po’ di anni sono in aumento tra gli studenti universitari perché qui la competitività viene alimentata dalla costante paura di fallire, di non essere all’altezza degli altri e delle loro aspettative, di deludere la famiglia: questo è dato dalla pressione sociale e dal mito irraggiungibile dell’eccellenza, ci sentiamo in difetto per non aver concluso in tempo e per non aver raggiunto una media alta. Gli studenti sono spesso vittima di paragoni con i figli degli altri e questo fa alimentare una costante inadeguatezza.

Per questo, sempre più studenti descrivono a parenti e amici un percorso di studi che si sta concludendo con la laurea, senza dire che questa, in realtà, non ci sarà e esaltare a livello mediatico la più giovane laureata d’Italia fa senitire chi è fuoricorso ancora più in difetto, dato che viviamo una quotidiana pressione già da parte delle famiglie, dei professori e anche dei nostri coetanei. Non tutti hanno il coraggio di chiedere aiuto.

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Società della performance, viviamo in una costante apnea

Viviamo in una costante apnea che ci porta a pensare che potremmo respirare solo quando avremmo raggiunto uno specifico obiettivo. Bisognerebbe imparare a darsi il proprio tempo per non far dipendere la nostra vita da una folla distratta e instabile.

Peter Handke, Premio Nobel per la letteratura, scrive: “Io vivo di ciò che gli altri ignorano di me”. Con questa affermazione intende che viviamo in una società in cui siamo tutti costretti ad avere un’immagine pubblica.

Siamo performer da quando nasciamo a quando moriamo, non possiamo fare a meno di osservare quello che stanno facendo gli altri, intanto noi non siamo mai abbastanza. Lo scopo della società della performance è quella di dare un’immagine idealizzata di sé. Filosofi e scrittori come Maura Gancitano e Andrea Colamedici di Tlon affermano:

L’intera vita delle società, in cui dominano le più avanzate innovazioni tecnologiche, si annuncia come un immenso accumulo di performance.

Tutto può essere visto come una performance, ogni cosa può meritare di essere usata per accrescere la propria reputazione e la propria visibilità.

Il male peggiore è che a creare la repetutazione è l’insieme delle valutazioni ricevute dalle performance. La nostra attività di performer è ormai pervasiva e si manifesta in ogni aspetto delle nostre vite. L’ansia sociale di essere apprezzati è l’aspetto che ci caratterizza anche fuori dai social, quella di essere giudicati in base alle nostre azioni sempre rispondenti alle aspettative sociali. La società della performance continuerà a esistere fino a quando noi, come singoli e come collettività, non vorremo porre fine.

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Come formarsi senza valutazione: dal modello staineriano alla scuola della responsabilità

Nel 1919 viene istituita a Stoccarda la prima scuola con metodo Steiner, ideata dall’omonimo matematico, filosofo e studioso austriaco della prima metà del ‘900. Aveva lo scopo di creare un’istituzione scolastica per figli degli operai della fabbrica.

Mentre a scuola veniamo sempre valutati, e questo ci mette in competizione gli uni con gli altri, la didattica steineriana non si basa sul grado di conoscenza nozionistica valutata attraverso i voti, come avviene per il metodo di insegnamento tradizionale, ma ha come obiettivo l’integrazione delle componenti fisiche e spirituali del bambino, senza tener conto dei livelli di conoscenza come necessari e obbligatori.

Gli insegnamenti steineriani non hanno lo scopo di formare un bambino perfetto, ma di adattare continuamente la materia di insegnamento a una più profonda comprensione dell’individualità dello studente: il più importante lavoro pedagogico consigliato da Steiner è quello che ogni insegnante può fare su di sé affinché si instauri fra lui e i suoi allievi una relazione profonda, una corrente di pensieri e sentimenti.


Oggi una valida alternativa alla scuola staineriana è quella del liceo Morgagni di Roma, dove il voto compare solo alla fine in pagella. Gli studenti ogni giorno imparano a valutarsi attraverso il confronto con i compagni e con l’autovalutazione, dove cooperano e imparano insieme a crescere e a studiare.

Gli allievi vengono interrogati e fanno prove di verifica, ma senza essere valutati con un numero. Calzante con il progetto è il nome ufficiale del liceo “Scuola delle relazioni e delle responsabilità.”

Un progetto nella facoltà di Pedagogia dell’Università La Sapienza ha istituito un laboratorio di sperimentazione per capire gli effetti della scuola con valutazione numerica. Dai risultati emerge che le prove Invalsi sono pari alle altre classi e gli studenti già diplomati stanno avendo buoni risultati all’università e riescono meglio dal punto di vista dell’autonomia e della capacità di lavorare in gruppo. Lo psicologo, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro di Milano, Matteo Lancini sostiene:


Io sono assolutamente favorevole a questo metodo. Da almeno 30 anni, da quando lavoro con la scuola, c’è consapevolezza di quanto sia importante la valutazione e di quanto sia riduttivo il voto numerico.

Che, pure se per gli insegnanti è piuttosto comodo da usare, non può esprimere la complessità di una valutazione seria.

Secondo Lancini le valutazioni che servono davvero sono quelle articolate, che spiegano allo studente quali sono i punti di debolezza su cui lavorare. In una scuola senza voti gli studenti non si sentono in competizione con i compagni né falliti perché hanno preso un 4.

Leggi anche: Carlotta Rossignoli, i compagni di corso: “Come ha fatto a laurearsi prima degli altri”

Un’università Stra-ordinaria è possibile

Risale al 2013 il progetto dell’Università Stra-ordinaria grazie a un piccolo numero di studenti dell’Università degli Studi di Torino. Questo progetto consiste in un’Università in cammino, che non ha esami, aule e professori.

Un’università le cui materie richiedono studi che durano una vita intera, in cui gli studenti sono anche maestri gli uni degli altri, oltre che compagni di viaggio. Gli argomenti che vengono trattati in questa università Stra-ordinaria sono legati a ciò che i partecipanti reputano veramente significativo e fondamentale per l’essere umano. Tra gli obiettivi di questo nuovo percorso universitario troviamo:

  • trascorrere il tempo di apprendimento immersi negli elementi naturali, rispettandone i tempi e gli spazi
  • porre al centro la ricerca valoriale della persona, in un contesto conviviale e comunitario senza vincoli di età
  • basarsi sulle modalità di insegnamento tipiche della prima università della storia: quella acromatica dell’Antica Grecia.

Una neolaureata dedica la sua tesi a chi non riesce a portare a termine il percorso universitario

società della performance


La naeolaureata all’università di Bari, Giulia Grasso, lo scorso giugno ha dedicato la sua tesi in Lettere antiche proprio a chi non riesce a portare a termine il percorso universitario. In particolare, agli studenti che non sono riusciti a sopportare il peso del “fallimento” e hanno deciso di suicidarsi. La ragazza racconta che anche per lei sono stati complessi gli anni dell’università e si è laureata due anni fuoricorso:


Non è mai solo una causa a motivare gesti così estremi come il suicidio ma la pressione sociale che gli studenti vivono quotidianamente potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso. Per questo costruire l’eccellenza ha un prezzo.

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di Francesca Russo

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