Greenwashing: che cos’è e perché se ne parla tanto

Loghi e insegne verdi nascondono a volte la volontà di marchi e aziende di mistificare i dati sull'inquinamento che producono: ecco cos'è il greenwashing

Enrica Vigliano
Enrica Vigliano
Enrica Vigliano, romana per adozione. Lavora nel mondo dell’arte e della comunicazione di eventi, dopo gli studi di Archeologia e di Business dei beni culturali. Adora parimenti la matematica e la grammatica, avendo una predilezione per le parole crociate e per la vita all’aperto.
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Si svolge in questi giorni la COP27 in Egitto, e tra i temi sollevati dalla commissione c’è la denuncia alla pratica del greenwashing: un problema sfuggito di mano e al controllo delle Nazione Unite. Il rapporto ufficiale pubblicato dalla commissione raccoglie il decalogo delle raccomandazioni alle aziende per non mistificare la promozione dei propri prodotti e promuovere la trasparenza, l’integrità e il raggiungimento reale del net zero.

Greenwashing: cos’è e perché si fa

Letteralmente greenwash significa “lavaggio verde” e consiste nel rendere attraenti sul piano della sostenibilità le merci che si producono o si vendono, creando la falsa illusione negli acquirenti di come un’azienda operi in modo ecosostenibile o dando un’impressione fuorviante sull’etica adottata.

Il termine nasce in ambito anglosassone sulla falsariga del whitewashing, usato che indica la pratica di diffondere informazioni false per nascondere situazioni spiacevoli o minimizzarne gli aspetti peggiori.

Si può agire secondo greenwashing anche quando un’azienda enfatizza alcune pratiche effettivamente sostenibili intraprese, con l’intento, tuttavia, di nascondere altri processi, specialmente produttivi, fortemente impattanti sull’ambiente.

Come funziona il greenwashing

Il greenwashing mira a capitalizzare la crescente richiesta di prodotti sostenibili o che suonino come tali: “100% naturale, libero da prodotti chimici, riciclabile, senza dispendio di risorse naturali” sono solo alcune etichette che dovrebbero mettere in guardia da un probabile tentativo di greenwashing.

Le prime aziende a essere entrate nell’occhio del ciclone greenwashing sono le compagnie energetiche che, nel tentativo di rendere più accattivante la vendita di combustibili fossili, hanno avviato processi di ribrandizzazione dei marchi e dei servizi, scegliendo, ad esempio, colori della gamma verde o adottando una semantica volutamente ambigua (energia naturale, energia ecofriendly etc).

Anche il packaging può essere fuorviante, per esempio attraverso l’inserimento di immagini di natura o di animali selvatici che richiamano il rispetto dell’ambiente sebbene non supportato da dati evidenti.

Come difendersi dal greenwashing

Ovviamente non tutti le aziende praticano il greenwashing: esistono merci e servizi effettivamente sostenibili e non bisogna nemmeno dubitare sugli sforzi e sulla buona volontà di cambiamento proposti.

Ciò a cui bisogna fare attenzione, invece, sono le etichette e le spiegazioni riportate sui prodotti acquistati, tenendo conto della filiera produttiva, della provenienza della merce, delle istruzioni di riciclo, della chiarezza e dell’accuratezza in cui sono riportate le misure di ecosostenibilità intraprese.

Sebbene riconoscere a un primo sguardo il greenwashing non sia così semplice, ci si può affidare anche ad analisi di mercato o ricerche di terze parti, per assicurarsi che l’azienda in questione sia in regola con quanto dichiarato.

Leggi anche: Cop27, il debutto internazionale di Meloni: “Sforzi più profondi e rapidi”

Le raccomandazioni delle Nazioni Unite

Contro il greenwashing una commissione di 17 esperti eletti dal Segretario Generale delle Nazioni Unite ha stilato un rapporto in 10 punti, presentato alla COP27, in cui si chiarificano alcuni nodi fondamentali contro pratiche fraudolente.

Così, non basterà più acquistare crediti di carbonio se i processi industriali continueranno a contemplare la deforestazione o l’investimento in combustibili fossili: le imprese sono chiamate a ripensare la catena produttiva in una vera ottica di sostenibilità, eliminando i passaggi più dannosi per l’ambiente.

I certificati di compensazione delle emissioni dovranno essere emessi solo in circostanze particolari e da fonti attendibili e verificabili.

Ogni azienda, poi, è tenuta a presentare annualmente un rapporto dettagliato sull’adozione di pratiche virtuose in vista del net zero, e prevedere all’interno del budget anche un flusso di denaro da destinare a Paesi in via di sviluppo che non hanno contribuito significativamente al riscaldamento globale.

La strada verso la decarbonizzazione è già in salita: il picco delle emissioni deve verificarsi entro il 2025 per poi dimezzarsi nei successivi cinque anni e comunque entro il 2030.

Leggi anche: Rapporto sul clima: “Europa si riscalda il doppio rispetto alla media globale”

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