Come la pandemia ha cambiato le nostre priorità e ci ha fatto riscoprire la campagna

Durante il periodo di lockdown in molti hanno riscoperto il piacere di una vita meno frenetica e più sostenibile fuori dai centri urbani. Un trend che in Italia è in corso da alcuni anni e che la pandemia ha solo estremizzato.

Elza Coculo
Elza Coculo
Elza Coculo, 30 anni, di adozione romana. Lettrice appassionata con formazione in Studi italiani. Laureata in Editoria e Scrittura. Redattrice per Il Digitale. Amo scrivere di attualità e cultura eco-sostenibile.
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Lo scorso inverno il mondo è stato sconvolto da una pandemia che ha costretto alla quarantena mezzo globo. Le città sono state serrate e le case in campagna sono diventata merce privilegiata agli occhi di chi, per mesi, ha dovuto vivere l’isolamento in appartamento, vale a dire in poche decine di metri quadrati di casa. Da New York a Parigi, da Roma a Londra, chiunque ne avesse la possibilità ha scelto di rifugiarsi altrove, nell’hinterland e negli spazi più aperti della campagna. Come in tutte le epidemie, anche questa volta, è stato evidente che nelle zone più densamente abitate e quindi più industrializzate e inquinate, il rischio di focolai è più alto. Ciò per molti ha significato un ripensamento del proprio stile di vita, quando non addirittura un vero capovolgimento delle priorità.

Ripensare la campagna

Dall’inizio della pandemia, l’affitto o la vendita di casali nelle campagne dell’Umbria, della Toscana o su colli, come quelli delle Langhe, è decisamente aumentata. I dati forniti dalla Fiaip, Federazione Italiana agenti immobiliari professionali, mostrano che anche in Italia la riscoperta di abitazioni dislocate in spazi verdi e più aperti, lontane dai centri urbani, ha conosciuto un decisivo incremento. A confermarlo, anche un’indagine della principale rivista italiana di riferimento, Ville&Casali, che tra il febbraio e l’aprile scorso ha registrato un aumento del 20% delle richieste. Per lo più la domanda è cresciuta per merito di professionisti affermati, imprenditori e top manager. Ma in Italia la riscoperta della campagna è un fenomeno trasversale che, in modi differenti, coinvolge anche il ceto medio e i meno facoltosi. E che attrae sempre di più i giovani.

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La vulnerabilità dei giovani alle crisi

Durante la pandemia, decine di migliaia di italiani hanno risposto alla chiamata per il lavoro nei campi. Le restrizioni hanno lasciato fuori dai confini del Paese oltre 200 mila braccianti stagionali stranieri e della necessità si è fatta virtù. Secondo quanto riportato da The Vision:

Ai primi di giugno in 30 mila risultano iscritti alla piattaforma creata da Confagricoltura, Agrijob, mentre altri 10mila si sono registrati su Jobincountry di Coldiretti. A maggio anche l’osservatorio dell’agenzia per il lavoro Orienta contava migliaia di candidature nel settore agricolo, per il 90% di italiani, tra i quali moltissimi sotto i 35 anni.

Sono soprattutto studenti o laureati, moltissimi freelance o professionisti senza coperture, oltre a camerieri, artigiani, negozianti. Un esercito eterogeneo, da una parte risultato della grande richiesta di manodopera temporanea in un momento storico straordinario, dall’altra conseguenza della vulnerabilità alle crisi delle ultime generazioni.

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La campagna come risorsa e opportunità

La scelta di ritornare in campagna da parte di molti giovani ha contorni piuttosto sfumati. In diversi casi il ritorno è una necessità economica, altre volte prende i contorni di una scelta di vita. Secondo un’analisi di Coldiretti su dati di Infocamere diffusa alla fine del 2019, l’Italia è il primo Paese in Europa per imprese agricole fondate da ventenni e trentenni. Parliamo di oltre 57mila nuove aziende nel 2018 e in aumento del 12% nell’ultimo quinquennio. Dopo la laurea, anche in percorsi di studi molto distanti dal settore agricolo, sempre più giovani decidono di investire il proprio futuro in progetti originali come agri-nidi, fattorie sociali, coltivazioni biologiche con tecniche sperimentali o parchi per energie rinnovabili. Inoltre, ricostruisce l’indagine, queste start up sono molto solide a livello economico, con un fatturato più alto del 75% e con il 50% degli occupati in più della media del settore, grazie alle formule innovative adottate.

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Campagna e borghi vecchi: l’auspicata rinascita

Il 20 febbraio scorso, mentre a Codogno scoppiava il caos, la ministra alle Politiche agricole Teresa Bellanova parlava uno storico ritorno alla campagna guidato da “una generazione che ha invertito la tendenza, non si vergogna più di fare i contadini”. Un fenomeno salutato con favore anche da architetti come Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri che hanno appoggiato senza esitazioni le proposte di intellettuali come Franco Arminio che ha parlato di “ripopolare le campagne”, per un futuro dei borghi dopo Covid19. Ma le difficoltà nel realizzare di una simile inversione non mancano. L’Italia manca di strutture e infrastrutture, in particolare al di fuori degli insediamenti urbani. Moltissimi durante il lockdown hanno denunciato la difficoltà di lavorare o seguire le lezioni da remoto poiché troppi luoghi periferici sono ancora privi di copertura Internet. Per ridare vita a campagne e borghi servono investimenti e, a ogni modo, va evitata una corsa frenetica alla trasformazione e/o cementificazione delle campagne con il rischio di creare solo nuove piccole città.

La pandemia ha aperto nuovi spazi per un importante intervento pubblico nelle aree interne, abbandonate negli anni per far crescere metropoli che oggi, invece, si dimostrano inospitali e pericolose. Il futuro post pandemia è un’opportunità, dunque, che se ben sfruttata potrebbe portare grande beneficio all’Italia e ai suoi abitanti.

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