Relazione madre-figlio: come si sviluppa uno dei legami più forti di sempre

La relazione madre-figlio è basata su dei meccanismi biologici che si attivano in modo interdipendente in entrambi i soggetti. Vediamo in che modo la psicologia tratta questo legame indissolubile.

Melissa Matiddi
Melissa Matiddi
Esperta in comunicazione e digital marketing, studia lo yoga e le discipline orientali. Ama creare, leggere e viaggiare. Silenziosa ma rumorosa, è sempre pronta a varcare nuovi orizzonti.
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La relazione madre-figlio rappresenta uno dei legami più forti di sempre. Biologicamente basato su un rapporto complementare e interdipendente, influenza, nel corso della vita, tutti gli altri legami.

Nella figura materna vengono attivati meccanismi fisiologici e innati, solo in risposta a precisi comportamenti che vengono messi in atto dal bambino. Tali atteggiamenti hanno lo scopo di richiamare l’attenzione della mamma, assicurarsi l’affetto, le cure necessarie, le attenzioni e le risposte ai suoi bisogni.

Entrambi hanno quindi un ruolo attivo nell’inaugurare un tipo di interazione che condizionerà a livello emotivo e cognitivo la vita adulta del neonato.

Al contrario di quello che si pensa normalmente, un bambino fin dalla nascita non dipende unicamente dalla figura materna, ma possiede un ruolo intraprendente nel nutrire e sviluppare la relazione con la mamma.

Relazione madre-figlio: la teoria dell’attaccamento dimostra che entrambe la parti sono attive

La relazione madre-figlio è essenziale da ogni punto di vista dal momento che si occupa di salvaguardare la sopravvivenza del neonato e lo sviluppo di un pattern relazionale che accompagnerà lo stesso per tutta la vita.

Lo psicologo e psicanalista britannico, John Bowlby, negli anni ’50 del Novecento elaborò la Teoria dell’attaccamento nella relazione madre figlio.

Evidenziò l’importanza di questo rapporto nello sviluppo fisico, comportamentale ed intellettuale del bambino. Con il termine di attaccamento identificò il legame, costituito da una serie di comportamenti e scambi affettivi e reciproci che si instaurano tra la mamma e il suo piccolo.

Bowlby sviluppò questa teoria sulla base di una ricerca affidatagli dall’Organizzazione Mondiale della sanità nel 1950, riguardante i bambini che avevano perso le loro famiglie. I risultati di queste osservazioni furono pubblicati l’anno seguente in un saggio chiamato “Maternal Care and Mental Health”.

Più tardi, il titolo sarebbe stato modificato in “Child Care and the growth of maternal love” per dare più spazio allo sviluppo infantile del bambino.

Secondo lo psicologo britannico, l’attaccamento implica la vicinanza con l’oggetto di attaccamento che fornirebbe benessere e sicurezza quando il bimbo si trova vicino alla mamma e angoscia e separazione quando se ne allontana.

Bowlby crea una differenziazione tra i termini di attaccamento e di comportamento di attaccamento. Mentre il primo comporta la vicinanza a situazioni piacevoli che generano comfort e sicurezza, il secondo include tutti quegli atteggiamenti che conducono un soggetto ad ottenere la prossimità di cui ha bisogno.

Quindi possiamo dire che l’attaccamento presuppone una modalità selettiva e attiva da entrambe le parti.

Stili di attaccamento nel legame tra mamma e bambino

Mary Ainsworth, psicologa canadese e collaboratrice di John Bowlby, ha svolto alcuni esperimenti per spiegare le tipologie di attaccamento tra genitori e figli.

Queste sperimentazioni avevano lo scopo di mettere il bambino in una situazione di stress (veniva lasciato da solo o con un estraneo) per vedere appunto come reagiva.

Grazie a queste osservazioni sono stati identificati alcuni stili di comportamento (Strange situation):

  • Stile sicuro: prevale la sicurezza e la fiducia nell’ambiente, il piccolo non è spaventato e sa per certo che non verrà abbandonato
  • Stile insicuro-evitante: il neonato si sente rifiutato dal caregiver e cerca di contare sulle proprie forze. Questo può portare il bambino a non sentirsi amato e a costruire un falso sé per ricercare l’amore che gli è stato negato
  • Stile insicuro-ambivalente: Il caregiver viene ricercato con molta frequenza e il piccolo presenta un atteggiamento ansioso e preoccupato
  • Stile disorganizzato: in assenza del caregiver, il bimbo reagisce con comportamenti disorientati

Per Bowlby e Ainsworth risulta evidente che il bambino ha bisogno di sentirsi protetto e accudito dal genitore.

Perché la teoria dell’attaccamento si allontana dalla psicanalisi

Nonostante l’impronta formativa di Bowlby sia stata di tipo psicanalitico, la teoria dell’attaccamento prende le distanze dal modello pulsionale di Freud.

Secondo il padre della psicoanalisi, la relazione madre figlio viene percepita sotto forma di libido. Il bambino vede la madre come nutrice dei suoi bisogni orali quando è presente, quando invece si dimostra assente si sviluppa l’angoscia causata dall’energia libidica che non viene smaltita.

Quindi per Freud, l’attaccamento è una conseguenza diretta del soddisfacimento da parte del bambino di pulsioni primarie come la fame, il calore e l’affetto da parte della mamma.

Secondo Bowlby invece, la relazione madre figlio è basata principalmente su un rapporto emotivo tramite cui la personalità del bambino si forma e si consolida.

Relazione madre-figlio: la funzione dell’allattamento

La funzione dell’allattamento risponde ad un bisogno primario di nutrizione da parte del bambino. Il latte materno infatti soddisfa e alimenta completamente i bisogni del neonato.

L’allattamento si basa principalmente su due attività: la suzione, messa in atto dal bambino e la produzione di latte, attuata della mamma. Queste due attività sono strettamente interconnesse e regolate anche a livello ormonale.

Dopo la fase del parto, l’ormone che regola la produzione di latte, la prolattina, aumenta incredibilmente e viene rilasciato nel momento in cui il bimbo ne ha bisogno.

Alcuni studi sull’argomento hanno dimostrato che esiste una correlazione positiva tra l’allattamento naturale e il quoziente intellettivo del bambino che presenta anche un miglior sviluppo neuro cognitivo.

Il ruolo del pianto nella relazione madre-figlio

Il bambino utilizza il pianto per comunicare con la madre fin dalla nascita, per segnalare i propri bisogni e attirare l’attenzione della figura materna. Usa questo comportamento sociale per interagire con l’ambiente esterno.

A seconda dello scopo, il bambino riesce a modulare la tonalità e l’intensità del pianto. Sono state individuate infatti diverse tipologie:

  • Pianto di fame, costituito da frequenze lente che crescono pian piano
  • Pianto di dolore, caratterizzato da forte intensità, da un periodo di apnea e dall’emissione di un vero e proprio grido disperato
  • Pianto di sonno, contraddistinto da un piagnucolio lamentoso
  • Pianto di noia, definito da una tonalità a intermittenza

Inizialmente, un neonato non possiede la consapevolezza che il suo pianto possa richiamare immediatamente la figura materna. Con il passare del tempo apprende però questa relazione di causa-effetto ed inizia a strumentalizzare e a ad apprezzare il valore comunicativo del pianto.

Il pianto ha quindi un ruolo centrale nella relazione mamma-figlio. La responsività materna attiva e promuove lo sviluppo della comunicazione nei neonati. I bambini che piangono poco verso il primo anno di vita hanno maggiori possibilità di sviluppare strategie comunicative grazie alla sensibilità delle loro mamme.

Leggi anche: Autorevole, autoritario, permissivo: come essere buoni genitori con l’aiuto della psicologia

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