Proteste in Colombia: la repressione oscurata dalla pandemia

Il perché delle proteste in Colombia. Un Paese fortemente messo in ginocchio dalla pandemia continua a manifestare nonostante l’escalation di violenze e repressione da parte delle forze dell’ordine.

Naomi Di Roberto
Naomi Di Roberto
Naomi Di Roberto, classe 1996. Sono una giovane giornalista pubblicista abruzzese, scrivo di temi globali, scienza e geopolitica. Ho una laureata in Lettere, una Magistrale in Editoria e Giornalismo ed un Master in "Comunicazione della scienza/giornalismo scientifico". Nella vita inseguo senza sosta il mio sogno: scrivere.
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Nelle ultime settimane si sono verificate delle violenti proteste in Colombia. Il Paese, dopo essere stato per diversi mesi protagonista del contesto mediatico per via del caso di Javier Ordonez, oggi torna ad essere al centro di un’escalation di violenze e repressione da parte delle forze dell’ordine. A subire i danni più gravi di tutto questo è una popolazione ormai stremata dall’emergenza sanitaria, famiglie messe fortemente in ginocchio dalla pandemia: circa 3,5 milioni di persone sono infatti cadute in povertà per via del Covid-19. Per intenderci, circa 3 milioni e mezzo in più rispetto al 2019, il 42,5% della popolazione; il prodotto interno lordo è sceso del 6,8% lo scorso anno, un crollo gravissimo.

Secondo quanto dichiarato da Reuters, proprio questa settimana è stato raggiunto un “accordo preliminare” tra governo colombiano, Comitato dello Sciopero Nazionale e gruppi studenteschi per porre fine alle proteste. Una situazione internazionale che fa riflettere, oscurata dalla pandemia.

Il perché delle proteste in Colombia

Siamo in Colombia, nel bel mezzo della terza ondata di pandemia provocata dalla diffusione del Coronavirus. Il 28 aprile, il Presidente Ivan Duque espone una proposta di riforma sul sistema di tassazione del Paese: una proposta che avrebbe penalizzato i cittadini di reddito medio. L’attuale Presidente, lo ricordo, è una figura che è stata fortemente criticata a livello locale, soprattutto per la gestione della pandemia in tutte le sue sfaccettature. 

Inizia così uno sciopero organizzato dalla Centrale unica dei lavoratori, il principale sindacato colombiano, che riesce ad ottenere una fortissima partecipazione da parte dei cittadini. E non solo. Studenti, civili, donne hanno così deciso di far nuovamente sentire la propria voce in maniera pacifica, ma tanti non si sono risparmiati in atti di vandalismo, saccheggi, incendi, strade bloccate per ostacolare il flusso di merci. 

Il 1 maggio il Presidente annuncia così il dispiegamento dell’esercito: “coloro che, mediante violenza e atti di vandalismo e terrorismo, cercano di mettere paura alla società”.

Sono almeno 40 i manifestanti che hanno perso la vita, centinaia i feriti dalle forze dell’ordine: Duque ritira il disegno di legge, ma le violenze, repressione e proteste in Colombia non si fermano.

Proteste in Colombia: cosa prevedeva la riforma fiscale

Proteste in Colombia
Immagine della bbc

Il governo aveva iniziato a promuovere la riforma fiscale come una misura che doveva mitigare gli effetti della pandemia, nonché mirare a raccogliere fondi per il programma di “reddito e solidarietà”, volta all’aiuto dei colombiani più colpiti economicamente dall’emergenza sanitaria. 

Tra le misure si avevano: un’imposta sul patrimonio per le persone con un patrimonio superiore a 1,35 milioni di dollari; avrebbe abbassato la soglia del reddito imponibile e aumentato la pensione e l’imposta sul valore aggiunto (IVA), il che avrebbe aumentato notevolmente i prezzi dei beni di sussistenza, tra cui quelli alimentari. Altri elementi della riforma hanno beneficiato del settore privato e di gruppi economici specifici. Includevano il mantenimento di diverse esenzioni fiscali per vari settori, compreso il settore finanziario, a vantaggio principalmente degli imprenditori benestanti.

In generale, si può dire che i dubbi della popolazione riguardavano appunto l’aumento delle disuguaglianze che la riforma avrebbe potuto mettere in atto. Ma non è solo questo ad aver innescato le proteste.

Nuove violenze da parte delle forze dell’ordine

 Militarizzazione della città, utilizzo di gas lacrimogeni sulle folle, violenze e repressione sono solo alcuni degli strumenti messi in atto per fermare le proteste in Colombia.

“La polizia ha usato indiscriminatamente gas lacrimogeni, fucili e armi semiautomatiche sui manifestanti per disperderli, agendo contro gli standard internazionali. Dal 28 aprile decine di persone sono state uccise e ferite. Ogni giorno sempre più persone vengono punite per aver espresso la propria opinione in Colombia. Agisci ora e chiedi al presidente Ivan Duque di porre fine alla repressione dei partecipanti allo sciopero nazionale colombiano e di indagare su tutte le accuse di uso eccessivo e non necessario della forza contro i manifestanti”. 

Queste sono le parole di Amnesty che, sull’argomento, ha anche montato un video che raccoglie video come testimonianza delle violazioni dei diritti dei colombiani.

“Secondo le organizzazioni della società civile colombiana, alla data del 3 maggio la Polizia nazionale aveva ucciso 37 persone e aveva eseguito 831 arresti arbitrari. Si registravano anche 142 casi di maltrattamento, 10 di violenza sessuale e 65 di sparizioni di manifestanti. Amnesty International è in grado di confermare che in diversi casi le forze di sicurezza hanno usato armi letali e hanno fatto ricorso indiscriminato ad armi non letali come gas lacrimogeni e cannoni ad acqua. Le forze di sicurezza hanno usato fucili Galil Tavorn il 30 aprile a Cali e armi semi-automatiche il 2 maggio a Popayán. Il 1° maggio a Bogotá sono stati sparati proiettili veri da un blindato”.

Anche l’Organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch ha affermato di aver ricevuto segnalazioni di abusi da parte della polizia a Cali, e gruppi locali per i diritti umani hanno dichiarato che si sono verificati fino a 14 morti.

Tra le richieste dei manifestanti abbiamo un’azione di governo per affrontare la grave povertà del Paese, la violenza sempre più feroce da parte delle forze dell’ordine, le disuguaglianze nei sistemi sanitari ed educativi.

Nuove proteste in Colombia: il caso Ordóñez

“Sto soffocando” e poi ancora “per favore basta”.

Sono queste le parole che si sentono nel video registrato dall’amico di Javier Ordóñez, 46enne morto lo scorso settembre per mano della polizia dopo essere stato picchiato e colpito più volte con uno storditole elettrico. L’uomo era stato arrestato per la presunta violazione del distanziamento sociale, norma prevista per prevenire il contagio da Covid-19.

L’uomo si trovava in strada residenziale con un amico, erano usciti perché avevano terminato gli alcolici. Ordóñez era padre di due figli e si stava per laureare in legge. “Ho detto loro per favore, aiutatelo, portiamolo in ospedale”, ha raccontato Juan David Uribe a Reuters Tv. Ma Javier Ordóñez è stato portato in ospedale troppo tardi. Quest’uomo è solo una delle tante vittime delle sempre più violenti proteste in Colombia, proteste che ancora oggi accendono il Paese.

Il video ha così fatto letteralmente il giro del mondo, sui social viene subito lanciato l’hastag #ColombiaLivesMatter. L’accaduto non ha fatto altro che riportare alla mente  George Floyd, il cittadino afroamericano ucciso da un agente della polizia. Anche lui aveva detto: “Sto soffocando”.

Il caso Ordóñez non ha fatto altro che dare il via alle numerose e sanguinose proteste in Colombia, che hanno infiammato soprattutto Bogotà. Sono stati dichiarati circa sette morti, 248 feriti. Secondo quanto dichiarato da Repubblica, Claudia López ha affermato che anche circa 100 agenti di polizia sono rimasti feriti. “Non avevano avuto l’ordine di sparare”, riporta sempre la fonte “soprattutto non in modo indiscriminato, ma ci sono prove che in alcune zone l’abbiamo fatto”.

Un conflitto durato cinquantadue anni

Nel 2016 il governo di Juan Santos e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), firmarono un accordo che segnava la fine del conflitto civile nato negli anni Sessanta tra Stato e guerriglia della Colombia. Un accordo che però nasce fin da subito con un certo livello di incertezza. Nel referendum di ottobre, quello che avrebbe dovuto dare il via libera alla pacificazione, arrivò con un “no” che vinse con il 50,2% dei voti.

LEGGI ANCHE: Processo Floyd, l’agente Chauvin è colpevole, la famiglia: “Siamo in grado di respirare di nuovo”

Proteste in Colombia: che ruolo ha Ivan Duque?

Proteste in Colombia

Nel 2018, a Santos succedette proprio Iván Duque, uno dei portavoce del “no”. Duque riteneva che fosse inaccettabile dar la possibilità ai membri delle FARC di assumere incarichi politici in Colombia. I temi su cui maggiormente si è concentrato riguardavano proprio la necessità di riforme per la riduzione della spesa pubblica, nonché il problema migranti provenienti principalmente dal Venezuela.

Dopo quasi un anno di mandato, nel mese di settembre, circa cinquecento organizzazioni sociali ed Ong hanno presentato e diffuso un rapporto in cui mostrano come lo Stato stesse imponendo un programma di lavoro sulla riforma rurale, la sostituzione delle colture e l’assistenza alle vittime diverso rispetto a quello previsto nell’accordo di pace, decurtando inoltre il finanziamento destinato all’accordo stesso.

L’assenza delle FARC ha fatto sì che proprio in quei territori da loro controllati, ed in cui lo Stato era stato ed è fortemente assente, prendessero il sopravvento i gruppi armati. Questi ultimi, in continua lotta fra loro, mirano al controllo di quei territori per loro scopi personali (sfruttamento di risorse, di posizioni strategiche ecc.), e sono la principale causa di sfollamento e reclusione delle popolazioni locali.

L’origine delle proteste in Colombia

Quella di cui stiamo parlando è una situazione “calda”, tesa ormai da diverso tempo. La vicenda della riforma fiscale non ha fatto altro che riproporre un malcontento generale dovuto a lavoro, salute, sicurezza ed economia in generale. È dal 2019 che i colombiani scendono in piazza per protestare, manifestazioni che non sono state fermate neanche dalla pandemia.

Sicuramente il ricorso alla repressione violenta riflette l’incapacità delle autorità di affrontare il malcontento dei cittadini, la perdita di legittimità nonché l’allontanamento dalla visione democratica. L’emergenza sanitaria ha provocato circa 75mila decessi, quasi 3 milioni di contagi ufficiali, un Paese letteralmente messo in ginocchio, ma che non intende fermarsi.

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