Non è giornalismo, sia chiaro. È una macchina del fango

"La condanna mediatica", un libro di Aldo Torchiaro per capire come e di cosa il giornalismo si stia ammalando.

Silvia Buffo
Silvia Buffo
Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.
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Il giornalismo ha perso di vista la sua finalità vera. Ha smesso di cercare la verità dei fatti con le cautele che ogni caso richiede e iniziato a scrivere ogni giorno il capitolo di un romanzo criminale. Perché niente fa vendere tanto quanto la trama avvincente di un thriller: l’intreccio tra bene e male, potere e corruzione, ambizione e denaro sono la miscela ideale per una narrazione di successo.

E perché una storia con questi ingredienti stia in piedi, è necessario che oggi ci sia un colpevole. Il Mostro piace, tira sempre. Il colpevole, il reo, l’imputato (e spesso anche il semplice indagato) è la figura di riferimento dello storytelling. E quando non c’è un colpevole vero, bisogna trovarne uno fittizio: un sospetto su cui gettare fango, con la speranza che il malcapitato magari qualcosa di illecito l’abbia commesso davvero.

Quanto piace il mostro in prima pagina?

Il paese che ha condannato mediaticamente a morte Enzo Tortora non ha ancora imparato niente da quella lezione. Il popolare conduttore televisivo venne messo nel tritacarne dell’informazione senza che nessuno, tra i professionisti dei giornali, realizzasse di essere caduto in una trappola.

Le polpette avvelenate vengono servite ogni giorno, alla mensa dei giornalisti meno attenti. Che spesso cadono vittime di un bias cognitivo: si convincono di avere trovato un filone aureo e si ostinano per mesi e anni nel ribadire la stessa versione, e quando emergono i dati di realtà faticano a superare l’imbarazzo di dover ammettere di aver preso un granchio.

La condanna mediatica arriva prima e va sempre oltre quella giudiziaria. Il “tribunale della stampa”, per non parlare di quello della rete, giudica con sentenza inappellabile e definitiva il Colpevole (che poi spesso si rivela innocente).

Il sospettato diventa indiziato, e molto prima che vi sia una sentenza definitiva ecco che la campagna di demolizione della reputazione parte con le armi affilatissime dello shitstorming.

Il malcapitato non riuscirà – se non dopo mille peripezie – a scrollarsi il fango di dosso. Mentre si cerca di declinare in legge il principio della presunzione di innocenza, tra le proteste del sindacato dei giornalisti, la crisi di vendite dell’editoria tramuta lo strumento di analisi dell’informazione in una lente che deforma la realtà: ogni giorno esige un suo mostro in prima pagina, un caso criminale che faccia moltiplicare i clic. L’innocenza non rileva. Interessa poco. Come le buone notizie, che non a caso nei film arrivano per ultime.

“Il prisma della character assassination”, l’analisi di Aldo Torchiaro

In questo volume, curato dal giornalista del Riformista, Aldo Torchiaro, si occupano della questione quattro interlocutori che affrontano il prisma della character assassination secondo angolature e competenze diverse.

Si confrontano l’avvocato Giorgio Varano, dell’Unione delle Camere Penali; la giornalista Valentina Angela Stella, del quotidiano Il Dubbio; l’avvocato Salvatore Ferrara, esperto in questioni legate ai reati dell’informazione; il deputato Enrico Costa, già Viceministro della Giustizia nel governo Renzi, “padre” della legge sulla presunzione di innocenza.

Le loro considerazioni fanno da cornice al focus di un caso che secondo Torchiaro rappresenta oggi uno dei più eloquenti, nella sua semplicità: un cittadino incensurato, Antonio Velardo, che viene riconosciuto innocente dai tribunali e contemporaneamente colpevole dalla rete.

Un caso rappresentativo della deriva che ha preso l’informazione: il giovane imprenditore è entrato e uscito in una inchiesta del Procuratore Gratteri, che lo ha scagionato. Ma rimane nel mirino dei sospetti e viene dipinto nelle inchieste giornalistiche con coloriture gratuite, farcite di stereotipi e di pregiudizi. A noi il libro “La condanna mediatica” sembra tra i pochi che raccontano, nero su bianco, di quale malattia si sta ammalando il giornalismo.

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