Mascherine rosa ai poliziotti: “Noi non le indossiamo”! C’entra solo il colore?

Mascherine rosa ai poliziotti in alcune città italiane sono state consegnate alla polizia. Il sindacato ha inviato una lettera di protesta indicando come il rosa possa screditare l'immagine delle forze dell'ordine. Gli studi sull'associazionismo mentale però ci dimostrano che non è solo una questione di colore.

Melissa Matiddi
Melissa Matiddi
Esperta in comunicazione e digital marketing, studia lo yoga e le discipline orientali. Ama creare, leggere e viaggiare. Silenziosa ma rumorosa, è sempre pronta a varcare nuovi orizzonti.
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Per fronteggiare la quarta ondata di Coronavirus, sono state recapitate presso i comandi della polizia locale di Pavia, di Varese, di Ferrara, di Siracusa e di Venezia delle forniture di mascherine Ffp2 di colore rosa.

Il Sindacato autonomo della polizia è subito insorto con una lettera di protesta diretta al capo della polizia, Lamberto Giannini, ritenendo il colore rosa indecoroso e inaccettabile, in quanto metterebbe in ridicolo l’immagine stessa dell’istituzione.

Mascherine rosa ai poliziotti: questa volta le vittime sono gli uomini?

Nella nota si chiede, un immediato intervento volto ad assicurare che i colleghi prestino servizio con mascherine di un colore diverso (bianche, azzurre, blu o nere) e comunque coerenti con l’uniforme della Polizia di Stato evitando dispositivi di altri colori o con eventuali decorazione da ritenere assolutamente inopportuni.

Dalle dichiarazioni del Sap, appare evidente il bisogno per i poliziotti di indossare colori che non compromettano la virilità e l’autorevolezza della divisa. Ma siamo davvero sicuri che sia solo questo il motivo? Come funzionano le associazioni mentali e come lavorano sulle nostre esperienze?

Mascherine rosa ai poliziotti: a caccia di stereotipi di genere

Alla base delle polemiche sulle mascherine rosa ai poliziotti, mosse rispetto al colore ritenuto troppo da “femmina”, molti hanno sottolineato che il problema non fosse legato direttamente al rosa, ma che fosse indirettamente connesso alla figura delle donne e più precisamente al genere femminile.

Anzi, per essere ancora più precisi sembrerebbe che tale dibattito rispetto alle mascherine rosa ai poliziotti, abbia risvegliato certi stereotipi di genere incatenati imprescindibilmente al mondo delle donne come vezzosità, fragilità, leggerezza, superficialità e bellezza. Tutti cliché che condizionano ancora oggi l’universo femminile. Le caratteristiche menzionate si scontrano parecchio con l’immagine che un pubblico ufficiale vorrebbe dare di sé.

Gli stereotipi di genere sono delle generalizzazione compiute ai danni degli uomini e delle donne che influenzano, nei confronti dell’uno e dell’altro, le aspirazioni e i pensieri. Limitando la libertà di azione e di espressione, fungono da gabbie che intrappolano e manipolano la propria individualità. La mancata conformità a tali credenze fa sì che la persona giudicata sia ritenuta troppo femminile o troppo maschile. Lo stereotipo definisce una forma imprecisa di percezione pubblica poiché non coglie le differenze sociali ed evolutive a cui il gruppo stesso (uomo, donna) è collegato.

In un certo senso, si finisce col cristallizzare un segmento di realtà che è invece in continua trasformazione.

Focolai di termini sessisti

Il primo ad affrontare il tema degli stereotipi di genere fu Sheriff Richard Jarrett che cercò di individuare il sistema delle credenze condivise attribuite alle caratteristiche maschili e femminili.

Dalle ricerche sono emerse delle sostanziali uniformità rispetto agli attribuiti che uomini e donne hanno dato alle rispettive categorie.

Per lo stereotipo maschile: dominante, aggressivo, indipendente, forte, competitivo e decisionista. Per lo stereotipo femminile: affettuosa, emotiva, empatica, fragile, remissiva e gentile.

Tutti questi aggettivi vengono ricondotti ogni volta ad alcuni schemi binominali che prevedono le seguenti classi: agentico-communale (attivismo, sollecitudine e capacità di prendersi cura degli altri), strumentale-espressivo (orientamento al risultato, capacità di espressione e di supporto) o più semplicemente maschile-femminile.

Pertanto, gli stereotipi di genere vincolano comportamenti discriminatori e penalizzanti. Le donne e gli uomini sembrano limitarsi in seguito all’influenza dello stereotipo. Una persona, condizionata dall’aggettivo stereotipizzato, conseguirà un risultato inferiore rispetto a quella che si trova in una condizione più favorevole. L’impegno a combattere queste credenze, ritenute limitanti e restrittive che danno luogo al fenomeno della discriminazione sociale, è al centro dell’attenzione a livello nazionale e comunitario.

Il rosa non è il colore delle donne

La vicenda delle mascherine rosa ai poliziotti apre ancora una volta i battenti sulla questione della categorizzazione dei colori, il cui significato dovrebbe essere attribuito dalla società in modo totalmente arbitrario. Di certo ci si sorprenderà nello scoprire che il colore finito sotto inchiesta, non sia stato sempre associato al mondo femminile. Infatti, la parola “pink” comparve per la prima volta verso la fine del 1700. A quel tempo non era affatto legato alla donna. Gli uomini lo utilizzavano addirittura nel vestiario, in combinazione con il bianco o per gli interni delle proprie abitazioni. Basti pensare che nel celebre capolavoro di F. Scott Fitzgerarl del 1925, il protagonista del grande Gatsby, Jay Gatsby, indossi un completo totalmente rosa. Il colore era sinonimo di passione, mascolinità e forza poiché ricordava i toni accesi del rosso che ne rivendicava invece le memorie belliche.

Per assurdo, le bambine di quel periodo vestivano con il blu, percepito come innocenza, purezza, sottomissione e rettitudine. Non a caso il colore del velo della Madonna era proprio lo stesso caldamente consigliato alle figure fanciullesche. In un’edizione del 1918 di Earnshaw’s infants’ Department si legge:

La regola generalmente accettata è rosa per i maschi e blu per le femmine. La ragione sta nel fatto che il rosa, essendo un colore più deciso e forte, risulta più adatto al maschio, mentre il blu, che è più delicato e grazioso, risulta migliore per le femmine.

Malgrado l’inversione di colori, a partire dagli anni ’40 le industrie tessili cominciarono a produrre indumenti femminili in rosa e indumenti maschili in blu, senza alcuna ragione precisa. Da quel momento in poi, nella società occidentale si è radicata l’associazione mentale del colore-genere, come nel caso delle polemiche delle mascherine rosa ai poliziotti.

Perché il cervello lavora per associazioni?

La regione cerebrale che si occupa di conservare le singole tracce di memoria per ciascuno dei singoli elementi degli ambienti per poi rielaborarla, si chiama ippocampo.

I ricercatori dell’Arizona State University e della Stanford University hanno raccontato i loro esperimenti in un articolo su Nature Communications, in cui hanno scoperto un sistema di attivazione dell’ippocampo che spiegherebbe come si formano le associazioni mentali.

L’assunto di partenza è che il cervello predisponga di una struttura di tipo mnemonico che consente di tenere traccia degli elementi e della loro combinazione.

Il cervello non possiede mai tutte le conoscenze per formulare conclusioni corrette ma il suo istinto gli impone di formulare soluzioni immediate, soprattutto in situazioni di pericolo imminente. Per fronteggiare questa mancanza, il sistema del cervello elabora degli schemi mediante i bias cognitivi (costrutti fondati su percezioni errate o su pregiudizi o ideologie deformate) che gli permettono di comprendere, catalogare e categorizzare la realtà.

L’importanza del bias è così fondamentale da garantire la sopravvivenza dell’essere umano, infatti è preferibile avere uno schema sbagliato che la sua totale assenza.

Tramite il meccanismo dello schemismo mentale, che è ampiamente diffuso, comprendiamo il perché sia così semplice nel mondo moderno radicare delle credenze invalide nelle nostre teste.

Il cervello ha perfezionato nel corso negli anni una tecnica di elaborazione e di correlazione dei fenomeni e degli accadimenti in maniera del tutto conscia o inconscia (i colori-genere rosa e blu) che vengono, alla fine del processo, confermati e consolidati attraverso i bias di conferma (donna è rosa, uomo è blu) nei propri sistemi di ragionamento.

Per azzerare questo schema, è necessario riformulare le nozioni corrette, mostrandone la contraddizione intrinseca e arrivare alle risultanze fornite dalle nozioni e non quelle date dalla nostra mente.

Il cervello umano è un tipo molto abitudinario che oppone una forte resistenza ai cambiamenti ed è sempre regolato e manipolato dalle strutture schematiche che lo abitano. Quindi ora è chiaro, che la questione delle mascherine rosa ai poliziotti non sia solo legata al colore in sé ma sia interconnessa al sistema di background del nostro assetto neuronale.

In pasto ai colori: tra emozioni e sensazioni

Recenti studi hanno dimostrato come gli esseri umani percepiscano i colori come dotati di singoli stati emozionali. Le nostre reazioni vengono sempre influenzate dall’umore e dalle esperienze che ad esso abbiamo associato. Lo stimolo visivo o sensoriale una volta ricevuto, viene immediatamente elaborato dall’amigdala che coordinando gli stati emotivi, produce una risposta inconscia.

Quindi, i circuiti neuronali integrano la risposta con le esperienze individuali pregresse. Nel caso in cui gli stimoli siano completamente nuovi, vengono appresi per la prima volta. Il significato generato dalle nostre sensazioni viene congelato nel nostro cervello, influenzando la percezione, il pensiero e il processo decisionale.

La percezione è un passaggio molto importante in quanto integra l’informazione che riceve il nostro cervello dal mondo esterno con la conoscenza personale basata sulle nostre esperienze precedenti.

Leggi anche: Linguaggio inclusivo contro razzismo e sessismo, ne parliamo con Vera Gheno

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