La lingua italiana ci divide? Ne parliamo con Vera Gheno

Dalla 'medica' all' 'architetta', che approdano su Treccani, allo Schwa che amplia il linguaggio: confronto con Vera Gheno per capire se a dividerci l'un l'altra è ormai anche l'uso della lingua.

Silvia Buffo
Silvia Buffo
Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.

È un’era polarizzante, divisiva, persino il tema della lingua italiana lo è. E mentre i femminili si emancipano e approdano ufficialmente nei vocabolari, si è appena aperto il sipario su uno scenario politico e sociale di chiusura, a cui già pandemia e guerra ci avevano inconsciamente orientati, esaltando il connaturato senso di diffidenza, che ora diventa anche paura del cambiamento o meglio della diversità, come spiega Vera Gheno, sociolinguista che da tempo non ha bisogno di presentazioni, curriculum geniale e mente disciplinatamente eccentrica. Ci siamo confrontate su cosa stia accandendo alla lingua in questo periodo storico. L’intervista senza filtri, senza editing, direttamente ‘in bella’, o ‘in brutta’, chissà. Lussi di chi mastica la parola come bere un bicchier d’acqua.

L’intervista a Vera Gheno

vera gheno

1. Non è raro notare come in ambito linguistico il dibattito viri sempre più verso uno scontro: la scelta o l’esclusione di un certo modo di parlare equivale spesso a una presa di posizione ideologica e politica. Scontri infuocati sui social sulla scelta di femminilizzare o meno il linguaggio: quanto secondo te la lingua è argomento divisivo?

A parte che non lo definirei “femminilizzare o meno il linguaggio”, quanto piuttosto “usare l’italiano come la sua morfologia prevede che venga usato” (cioè, impiegando i femminili per referenti femminili), certo che la lingua è un argomento divisivo: come potrebbe essere altrimenti? I costumi linguistici hanno una fortissima valenza identitaria, e questo implica che quando si toccano le parole, si toccano le persone. Non esiste uso linguistico che non sia ideologico e politico: ogni volta che apriamo bocca, esprimiamo un posizionamento, che ne siamo consapevoli o meno.

Serianni e il ‘maschile di convenzione’

2. Anno accademico 2004- ’05, a lezione di Grammatica storica italiana Luca Serianni – quindi molto prima del caos mediatico su maschili e femminili- ci parlava di quello che lui chiamava ‘maschile di convenzione’, spiegando come nella lingua italiana le professioni siano sempre state indicate al maschile: il medico, il sindaco e l’avvocato, altrimenti suonerebbe, a suo dire, ‘caricaturale’, e che ‘avvocata’ indichi solo ‘la Madonna’, che in quel caso caricaturale non è. Serianni, tra le persone più libere, sobrie, di buon senso e rispettose dei diritti che abbia mai conosciuto, non mi pare che a livello biografico non abbia dimostrato flessibilità e apertura, nonostante il suo carattere discreto. Cosa pensi delle posizioni di Serianni su questo tema? Magari negli ultimi anni si saranno pure evolute e io non ne sono al corrente.

In Italia si ragiona di sessismo linguistico da ben prima: le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini risalgono al 1987. Semplicemente, prima se ne parlava meno fuori dai circoli linguistici e politici, e del resto non esistevano i social. Ovviamente, non condivido affatto la posizione di quel tempo di Luca Serianni, che, per quello che ho potuto vedere nei vent’anni in cui ho lavorato in Crusca, nel frattempo si era pure modificata, oserei dire aggiornata, su questi temi. Ho sempre avuto una stima immensa per lui e per la sua competenza, però non posso che osservare che talvolta, quando si detiene un privilegio – in questo caso, quello di essere una persona di genere maschile in una società fondamentalmente androcentrica e patriarcale – è difficile rendersene conto. Nel frattempo, negli ultimi dieci anni, sono usciti diversi studi empirici che stanno mostrando come l’uso del maschile sovraesteso abbia precise conseguenze cognitive, non sia quindi affatto “innocente” come pareva pensare Serianni stesso. Sul “caricaturale”, non commento. Se così fosse, sarebbe “caricaturale” anche chiamare “ostetrico” l’ostetrica maschio, e invece non mi pare che sia così. Per me, caricaturale non è un giudizio in alcun modo condivisibile. Si tratta meramente di abitudine a sentire o meno determinate parole.

3. Tornando al maschile da convenzione, personalmente lo trovo molto elegante e lo prediligo. Quando è stata eletta Virgina Raggi al Campidoglio sembrava però dissonante chiamarla ‘sindaco’, dato che lei amava farsi chiamare diversamente. A tuo avviso, non sarebbe il caso di emancipare definitivamente il lunguaggio da lotte politiche, femministe e per i diritti? E sfociare in una direzione in cui l’unica cosa da assecondare sia il personale gusto estetico? Assecondare cosa ci piace e identifica di più, emancipandoci dal discorso politico.

Sono totalmente in disaccordo. Intanto, il maschile “da convenzione” non è altro che il frutto della prevalenza maschile in certi settori professionali e in determinate posizioni apicali, tanto è vero che il problema stranamente non si pone per mestieri e posizioni in cui la donna è da tempo abituale (cfr. cassiera, certo, ma anche regina). Non ci vedo niente di elegante, anzi: io sento questo giudizio di eleganza come un bel lascito della visione patriarcale della nostra società. A mio avviso, sarebbe il caso di abbandonare l’idea che ci possa essere un linguaggio “vergine”, scevro da idee politiche (senza logos niente polis, ci ricorda De Mauro), perché il linguaggio è politico per definizione. In più, come si potrebbe agire in base al mero gusto estetico, forzatamente personale? Uno degli snodi centrali per comprendere il significato del linguaggio – e delle rivendicazioni linguistiche – è rendersi conto dell’intrinseca doppia natura delle scelte linguistiche: la lingua è il bene più individuale che abbiamo, tanto che non esistono due persone che presentano esattamente le stesse caratteristiche linguistiche, ma è anche bene collettivo, e quindi le scelte individuali influiscono sul nostro intorno, non possono essere prive di conseguenze cognitive né per noi né per chi ci circonda.

Lo schwa amplia il linguaggio

4. Sei tra i sostenitori dello schwa, sarebbe per te un modo per neutralizzare il linguaggio e quindi renderlo inclusivo? Nel tuo ultimo post spieghi molte cose interessanti in merito, ma proprio nomi promiscui come la guardia, la vittima, il pedone, il genio, il personaggio, dimostrano che forse forzare la mano su questo tipo di evoluzione linguistica sia una battaglia persa in partenza? Dimmi che non arriveremo a dire la personaggia, anche il suono vuole la sua parte e ha una sua estetica, una sua bellezza, un’armonia.

Personalmente, uso lo schwa quando voglio esplicitare a livello linguistico che conosco e riconosco l’esistenza linguistica e sociale di persone di genere non conforme. Non lo vedo come un modo per “neutralizzare il linguaggio”, ma per esprimere la mancanza di genere (o non esprimere il genere, a seconda dei punti di vista). Nemmeno parlo di “linguaggio inclusivo”, perché ritengo, come insegna Fabrizio Acanfora, che “inclusione” sottenda l’esistenza di chi include (“i normali”) e di chi in qualche modo subisce l’inclusione (“i diversi”). Motivo per cui parlerei piuttosto di linguaggio ampio. Sulla seconda questione: se declino al femminile i sostantivi di genere mobile (ingegnere/ingegnera) e quelli di genere comune (cambiando gli articoli: il presidente/la presidente) e riconosco i nomi di genere fisso (padre/madre) e quelli di genere promiscuo (guardia, vittima, pedone), non commetto assolutamente nessuna forzatura, perché sto semplicemente applicando le norme morfologiche dell’italiano. C’è poi chi si spinge a declinare i nomi di genere promiscuo (genia, personaggia, sentinello), ma questa azione, che esce dall’alveo della norma, ha per me il valore di rimarcare la rivendicazione politica. Personamente non dico “la personaggia”, ma nemmeno mi dà fastidio se c’è chi lo fa. E, tornando all’estetica, “personaggia” mica suona così diverso da “selvaggia”, semplicemente è desueto all’orecchio, più che cacofonico.

Conservare può essere sinonimo di amare?

5. Come definiresti l’atteggiamento, passami il termine ‘purista’, tradizionalista di chi vorrebbe cristallizzare e conservare la lingua così come poteva essere ancora quella di un intellettuale del ‘900?

Conservare può essere sinonimo di amare come lo può essere la gelosia morbosa. Sappiamo bene che è facile scambiare la gelosia e il senso di possesso per amore, ma che in realtà ne sono delle versioni degenerate. Per me, attaccarsi a un passato linguistico peraltro inesistente (se si considera che siamo parlanti dell’italiano da circa sessant’anni, dove si situerebbe questa mitica età dell’oro linguistica?) non è amore, ma frutto di una scarsa conoscenza delle dinamiche linguistiche. La lingua è lo strumento che abbiamo a disposizione per descrivere noi stessi, le nostre relazioni, il mondo attorno a noi. Tutto è in costante movimento, dunque come si può pretendere che non ci sia bisogno di cambiare anche la lingua?

6. Personalmente diffido dal politicizzare il linguaggio, che preferisco utilizzare in base a un gusto personale più estetico che ideologico. Lo schwa, rispettando il tuo punto di vista, mi sembra il simbolo dei luoghi comuni al contrario: ho sempre creduto i diritti si risolvano più con l’ovvietà- ossia dando già acquisito un diritto- che con rivoluzioni linguistiche di questo tipo. Immagino che la pensi diversamente, non si rischia però di snaturare la lingua in nome di una battaglia che con la lingua c’entra poco?

La risposta breve è no. La risposta lunga è: intanto, non si tratta di una battaglia, ma della ricerca di una voce da parte di una comunità che fino ad anni recenti era inesistente sia a livello sociale sia a livello linguistico (e, come ho già detto, le due cose sono connesse). Ricerca alla quale chiunque può aderire o meno, liberamente, senza imposizioni. E poi, che vuol dire “snaturare la lingua”? Il fatto che per me o per te funzioni non ci dovrebbe rendere cieche al fatto che per altre persone quella stessa lingua erige muri, che magari noi dalla nostra angolazione non scorgiamo. La lingua c’entra, eccome, perché è essenziale per poter vedere meglio cose, fatti, persone. Nominare con precisione serve per rendere visibili, in ultima analisi per capire le cose, per poterne parlare. C’è un bel libro di Kübra Gümüsay che si chiama “Lingua e essere” che ha un passaggio per me chiarificatore: “se per noi la nostra lingua funziona, non percepiamo la sostanza del nostro pensare, non vediamo l’architettura della nostra lingua. Percepiamo i muri e i limiti della lingua solo quando non funziona più, solo quando ci costringe. Quando ci toglie l’aria per respirare. Nel momento in cui la lingua non ha più funzionato per me, ho cominciato a percepirne la struttura. Ho riconosciuto ciò che mi metteva in difficoltà e che provocava in me la sensazione di soffocare. La lingua è allo stesso tempo ricca e povera, limitata e ampia, libera e carica di pregiudizi come lo sono gli esseri umani che la utilizzano”.

Stimare l’autorevolezza, ma non l’autoritarismo

7. Il tuo essere presente e attiva sui social, offrendo al pubblico le tue competenze, ma anche il tuo punto di vista ha creato conflitti accademici nel tuo percorso? E come ti sei emancipata da eventuali vincoli che potevano frenare il tuo percorso di studiosa, che sembra esser sempre più autonomo, personale e indipendente?

Conflitti non direi: ho sempre cercato di comportarmi in maniera coerente dentro e fuori dall’aula, e per me i social non sono altro che uno dei tanti territori nei quali mi muovo per fare divulgazione. Io penso che il conflitto sarebbe se agissi in maniera diversa da come “prèdico”, ma alla fine è quello che provo a evitare. Per il resto, grazie al cielo mio papà mi ha insegnato a stimare l’autorevolezza, ma non l’autoritarismo. Questo forse ha frenato il mio percorso accademico, in certi momenti, ma sono felice che mi abbia permesso e mi permetta di guardarmi allo specchio senza provare vergogna di me stessa.

8. Sei felice che Treccani abbia inserito per la prima volta nella storia del vocabolario la medica, l’architetta? Ideologia o trovata del marketing?

Intanto, i femminili esistevano già in numerosi dizionari (es. Zingarelli dal 1994); Treccani semplicemente ha messo a lemma, quindi allo stesso livello, maschili e femminili. E poi, non penso che sia né l’una né l’altra cosa. Per me, è semplicemente segno dei tempi. Valeria Della Valle e Giuseppe Patota sono linguisti competentissimi, e da anni lavorano per ammodernare l’opera lessicografica di Treccani. A mio avviso, questa innovazione sarà interessante da osservare nelle sue ricadute pratiche. La trovo essenziale per smontare l’assunto che il maschile sovraesteso sia in qualche modo necessario e inevitabile.

9. Temi che l’esito di queste elezioni sarà un freno culturale per questo tipo di evoluzione linguistica?

Penso che il governo attuale raccoglierà ampiamente i frutti dell’imperante “paura della diversità” che attanaglia la nostra società. Ma penso che il cambiamento sia inevitabile. Si potrà frenare, ma non bloccare. Basta tenere lo sguardo aperto verso le giovani generazioni e verso quello che accade nei paesi attorno a noi.

10. La cosa più entusiasmante a cui stai lavorando e il tuo prossimo futuro?

Mi piace tutto quello che faccio. Sono fortunata, da questo punto di vista.

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Silvia Buffo
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Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.
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