Chi è Kamala Harris, la prima donna vice-presidente degli USA

La vita e il back-ground culturale della nuova Vice Presidente degli Stati Uniti sono un ritratto dell’America di oggi e la dicono tutta sul perché proprio Kamala Harris abbia raggiunto questo successo.

Cecilia Capanna
Cecilia Capanna
Appassionata di temi globali, di ambiente e di diritti umani, madre di tre figli del cui futuro sente un grande senso di responsabilità
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“Sono la prima donna ma non sarò l’ultima”. Queste le parole di Kamala Harris durante il suo primo discorso da Vice Presidente degli Stati Uniti. È successo non a caso a lei di essere diventata Senatrice della California nel 2016, proprio su suggerimento di Joe Biden, e di essere stata nominata da lui sua vice per le presidenziali 2020, fino a diventarlo ufficialmente il 7 novembre.

Parla ad una folla festante, clacson che impazzano, gli occhi brillanti, vestita in bianco. Fa fatica ad iniziare per le urla incessanti dei sostenitori, poi rompe il ghiaccio: “La democrazia non è uno stato, è un atto! E la nostra vera democrazia era in gioco in queste elezioni, mentre il mondo stava a guardare. Oggi è un nuovo giorno per l’America.” 

Ringrazia i cittadini americani che votando Joe Biden hanno dato un messaggio: hanno scelto la speranza, l’unità, la decenza, la scienza e la verità. 

Kamala, avvocato, con un fortissimo senso di giustizia e dei diritti, in un paese infestato dal razzismo sistemico e in cui i valori su cui è stato costruito sono sempre più sbiaditi, insiste spesso sulla parola “decenza”, come fanno anche tutti gli americani che hanno voluto Trump fuori dalla Casa Bianca a queste elezioni presidenziali 2020. Un presidente dunque ritenuto indecente, non degno rappresentante del popolo americano. Un presidente che però moltissimi cittadini degli Stati Uniti avevano eletto 4 anni fa e che anche stavolta hanno sostenuto nel testa a testa sul filo del rasoio con Biden, finito 279 a 214, dopo una corsa in cui più di 100 milioni di persone si sono affrettate a votare in anticipo.

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Kamala e i diritti delle donne

Kamala ringrazia le donne americane che hanno sostenuto in massa Biden, benché 4 anni fa non avessero votato Hillary Clinton quanto ci si sarebbe aspettato.

Solo un mese dopo l’elezione di Trump e il saltare fuori come funghi di tutti i suoi scandali sessuali, nel pieno delle proteste #metoo, nel dicembre 2016 le donne erano scese in strada a milioni in una delle manifestazioni mondiali più grandi degli ultimi 30 anni, una marcia imponente che ha visto sfilare cortei rosa in moltissimi paesi in tutto il pianeta. Quelle donne hanno votato Biden, quindi anche lei.

Kamala celebra le generazioni delle donne nere, asiatiche, bianche, latine, native americane, che tutte, lungo la storia della nazione americana, hanno sollevato l’onda che la ha portata su quel palco, a vivere questo momento storico. Donne che hanno combattuto e che si sono sacrificate per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia per tutti, donne che sono la colonna portante della democrazia americana. Donne che hanno portato avanti le battaglie per i loro diritti fondamentali, per votare ed essere ascoltate. “Io sono in piedi sulle loro spalle” ha detto. 

Chi è Kamala Harris

56 anni, nata ad Oakland, cresciuta a Berkeley, California, sposata con 2 figli, la Harris è di madre indiana e di padre Jamaicano, Donald Harris – curioso che porti lo stesso nome di Trump. 

Nel suo discorso ha dedicato la sua vittoria alla donna più importante: la madre Shyamala Gopalan Harris. Quando a 19 anni immigrò negli stati Uniti per inseguire il suo “American Dream”, non si sarebbe mai potuta immaginare che avrebbe messo al mondo la prima Vice Presidente donna della nazione. Ha avuto su Kamala e la sorella Maya una fortissima influenza. Quando scese dall’aereo che la portò in America, portava con sé il ricco bagaglio culturale del suo paese, un’eredità che ha avuto il suo peso sulle figlie. Shyamala le ha anche volute portare in India per far capire loro le loro radici.

Appena saputo del successo di Kamala, Maya in un tweet ha scritto “La mamma ci ha insegnato che possiamo essere e fare qualsiasi cosa. Oggi sarebbe più che orgogliosa”. E ha fatto proprio un bel lavoro questa mamma, visto che anche la sorella di Kamala annovera cariche importanti nel suo curriculum, come analista politica di MSNBC e come consulente politico senior nel 2015 per guidare la campagna di Hillary Clinton.

Ma se da una parte da bambina la Harris seguiva la religione Hindu, contemporaneamente cantava nel coro dei pentecostali di Oakland. Se poi ci aggiungiamo anche che suo marito è un ebreo di Brooklyn, è facile comprendere la complessità del suo back-ground e delle sue esperienze nel navigare tra queste molteplici e diverse identità religiose e culturali. Di fatto ha provato nella vita reale cosa significhi essere parte dell’esperimento interreligioso americano.

Tuttavia, sia per avere un padre afroamericano, sia per essere cresciuta nella comunità afroamericana di Berkeley, Kamala si considera una donna nera. La madre sapeva che la sua patria adottiva avrebbe visto le figlie come nere, e con determinazione ha fatto in modo che diventassero donne afroamericane sicure e orgogliose. Con il passare degli anni così Kamala si è identificata con una comunità specifica, anche mentre attingeva e incorporava altri aspetti della sua vita nell’identità di donna americana di colore. 

kamala Harris vice presidente

Tale radicamento nelle comunità nere della Bay Area di San Francisco l’ha portata a frequentare la Howard University di Washington, D.C., l’università storicamente nera con una ricca tradizione di studi legali e attivismo per i diritti civili, una passione instillatale dai genitori sin da piccola e alimentata dall’humus delle città, vicinissime tra loro, in cui è nata e cresciuta: Oakland e Berkeley.

Berkeley, la città in cui negli anni ’60 sono nate le proteste studentesche, fino a diventare virali in tutto il mondo nel ’67 e ’68; Oakland, la patria del Black Panthers Party: luoghi in cui le battaglie per i diritti si fanno ancora oggi e a voce alta. 

Le battaglie della Harris

Le stesse battaglie che ha annunciato di voler intraprendere “ora che comincia il lavoro duro”:

• Sconfiggere la pandemia;

• Ricostruire l’economia;

• Sradicare il razzismo sistemico dal sistema giudiziario e dalla società;

• Combattere la crisi climatica;

• Curare l’anima degli Stati Uniti.

La vera America – dice – manda questo messaggio ai suoi bambini: sogna con ambizione, perché questo è il paese delle possibilità. 

Ed è proprio questo il punto. Trump ha spopolato con i suoi tweet e le sue foto che mostrano l’opulenza, il successo del business man, le limousine, facendo leva sul “profitto a tutti i costi” che scorre nel sangue del popolo americano. Per lui l’American Dream è il successo economico, il potere, tutti simboli del neoliberismo imperante che è la vera causa delle disuguaglianze, tanto da trasformare il sogno americano in un incubo.

L’American Dream di Kamala invece è quello dei diritti, è la sostanza, è quello dei valori su cui gli Stati Uniti sono stati costruiti: libertà, uguaglianza, giustizia. Kamala  stessa è il simbolo di questi diritti, una donna, afro-asiatica-americana, che ha subito discriminazione razziale sistemica e ha dovuto superare mille ostacoli, a dispetto delle parole incise ai piedi della Statua della Libertà. È inseguendo questo sogno che tanti migranti come sua madre hanno attraversato gli oceani per ricostruirsi una vita nel paese delle possibilità: rifugiati politici, perseguitati, discriminati, poveri in cerca di fortune. Kamala ce l’ha fatta.

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