Caro amico ti scrivo…È ancora il tempo delle stelle

Non solo imperdibile degustazione letteraria, ecco quali parti di te puoi incontrare nel romanzo di Massimiliano Virgilio "Il tempo delle stelle" e chi può tirare un respiro di sollievo leggendolo.

Silvia Buffo
Silvia Buffo
Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.

È ancora il tempo delle stelle? Spesso si dice “la scrittura è terapia”, in sé quest’atto è la più promettente, scivolosa scia cadente che nel tonfo del collasso attende, per compensazione, di veder trasalire un desiderio. E che sia reale, tangibile: che un sogno coltivato dentro trovi la sua dimensione sul piano della realtà. Se non sempre, mediante la scrittura, nonostante questa insita promessa, realizziamo desideri, essa resta però la più rassicurante forma d’ordine del proprio caos o di quello che ci orbita attorno. Ma la terapia non è un’esclusiva della scrittura, la vera terapia è nella lettura.

Come accade se inciampi ne Il tempo delle stelle, il tuo ultimo romanzo, Massimiliano Virgilio, quando immersa in una vita frenetica attuale e a un certo punto, alle soglie dei 40 anni, accade ciò che per un po’ fingi di non vedere, ma che poi non puoi più rimandare: specchiarti nella “dimensione tempo” e farti delle domande.

Avendo una naturale inclinazione verso i contrasti, ti scrivo una lettera digitale, per attuare un po’ un mio vecchio ideale di ‘giornalismo intimo’. Penso sia una forma onesta di fare informazione, tra i media c’è bisogno di spontaneità. Sì, ti parlo in primis di onestà, che è anche uno degli ingredienti magici del tuo romanzo. Grazie all’onestà della narrazione il tuo romanzo è riuscito.

Il tempo delle stelle è onesto e semplice come te, quindi, a suo modo, “immenso”

Per scriverti queste righe, non ho voluto leggere ciò che hanno scritto gli altri di te, perché questa semplicità voglio provare a restituirtela. Sono e voglio restare da sola tra queste pagine, senza nessuna influenza. Sin da subito ho avvertito una climax emotiva, il tuo romanzo è una “vera sudata”, perché alla fine davvero si arriva a una delle cose più provanti della vita: la consapevolezza, che cos’altro è se non il distillato di una grande fatica? Si dice che uno scrittore è grande quando riesce a interpretare sentimenti universali, e tu lo hai fatto, facendoci da specchio.

Leggendo Il tempo delle Stelle pensi: “Quanto è forbito, quanto è ricco, come è strutturato, il linguaggio di Massimiliano” e mai per una mera questione estetica. Una sempre coerente, equilibratissima serie di parole, che collocate in una certa posizione, tessono il racconto in una maniera che poi non sei più in grado di immaginare diversamente.

Per la tua capacità letteraria così descrittiva da lasciare senza fiato nella produzione di autenticità, dal racconto dei sentimenti, delle interiorità dei personaggi a quello finanche urbanistico, popolare e borghese della tua Napoli in contrasto, per questo e per qualcos’altro che è sottile, e quindi non riesco bene a dire, quelle pagine sono diventate proverbiali. Come tatuaggi restano con me, che finalmente ho parole per decifrare delle cose che non avevo ancora ben capito.

Prima d’ora non sapevo dare un nome a ciò, né avevo un lessico per orientarmi. Uno scrittore è grande, se scrivendo fa un favore a qualcuno e tu ti sei immolato benissimo per questa causa.

Questo senso di completezza equilibrata nella tua scrittura ci incoraggia nella certezza di sapere che per nessuna AI ci sarà mai una stella, che cadendo possa far scivolare con sé nel suo spazio effimero la penna di uno scrittore vero, proprio come te. Il tuo romanzo è la certezza che ciò non accadrà mai. Provo intima gratitudine per aver incontrato il tuo testo, quando nella nebbia dei 38 anni, da sola non sarei mai riusciuta a decifrare i miei conflitti col tempo.

Ora so che ogni stella ha il suo tempo

E io ero nella precarietà del mio. Il tuo è un libro di ambizione alla maternità, paternità come completamento? No, per me non è questo. Un figlio è solo un simbolo di qualcosa di più ampio, personalmente sono riuscita a decifrarlo quando un mio amico mi chiedeva: “Nella tua solarità, che cos’è a volte quella malinconia che puntualmente si riaffaccia?”

Io gli ho risposto: “È una malinconia legata alla fragilità, finitezza del mondo, da sempre sono sensibile rispetto a questa caratteristica dell’essere. Ferita connaturata in ognuno, ma forse in me più spiccata. È per questo che ci si rifugia nelle religioni, perché a volte neanche l’amore umano colma il bisogno di prendersene cura. Sentire l’abbraccio di Dio è sempre più raro, allora lo cerchiamo nell’amore di qualcuno. Nascevano per questo le famiglie. L’amore per qualcuno riattacca il pezzo mancante, l’amore di qualcuno ti rende intero. Idoneo a sopportare quella stortura, fragilità del mondo. Ti rende forte e quindi più felice, più sano. Abbiamo bisogno di un amore così intenso, non una virgola di meno. E in queste cose non ci si accontenta, altrimenti non ti senti mai integro per rimarginare quella ferita atavica”. Quando hai vent’anni, quel vigore ti dissuade, non sai che quella ferita non sarà mai rimarginabile. Mentre in età adulta ti ci arrovelli e cerchi qualcosa per ostinarti a risanarla.

Ma un figlio ti rende davvero “intero”?

A confermare questa mia dubbia percezione è Lara, che per riattaccare i pezzi esistenziali vuole un figlio: per me il tuo personaggio, caro Massimiliano, rappresenta un conflitto esistenziale che ho avuto modo di attraversare, proprio di recente. La sua parabola ne è la prova: sì, proprio Lara, quella giovanissima studentessa di Lettere Moderne, che farà del suo ideale un lavoro, l’operatrice sociale in soccorso dei più fragili, poco avvezza agli schemi e all’ordinario, che col suo Geppe, non ama cucinare, prediligendo il cibo da asporto, da consumare tra una canzone e l’altra nel comfort senza pretese del monolocale di Via dei Tribunali, per sentire addosso sempre un po’ la brezza dei viaggi all’estero e che, in questa sua dimensione, trova la complicità di un amore importante, tanto da costituirne insieme un’Entità, possibilmente con una lente sempre brillante sul mondo, una lente dissonante e proattiva, da “sagaci belve”.

Che succederà dentro Lara? Quella ragazza lì col tempo sente sgretolarsi qualcosa in se stessa: “Le lancette le sento […] credevo fosse una stronzata invece l’orologio biologico esiste”.

La pagina 146 è la mia chiave di lettura dell’intero romanzo: “Giorno dopo giorno i bisogni delle persone fragili si erano trasformati in opportunità di lavoro, il lavoro si era trasformato in routine e la ragazza che un tempo si era presentata in uno studio notarile con una gonnellina a balze viola e l’atto costitutivo di una cooperativa “sociale” adesso era una donna vicina ai quarant’anni, usurata dalle infinite trattative con i dirigenti comunali e con le banche, dalle rendicontazioni, dagli appalti, dai formulari, dalle relazioni di monitoraggio, tormentata dall’assenza dell’unica persona di cui avrebbe voluto davvero occuparsi: un figlio”.

Lara insegue la sua stellina, vuole un figlio che districhi questo enorme nodo irrisolto che improvvisamente è diventata l’esistenza, ma “il tempo delle stelle è breve”: lì tutto è in balìa di catartiche coincidenze e di treni da cogliere al volo, eppure i vicoli del rione sono pieni di ragazze rimaste incinte per caso.

Non è così per Lara e Geppe, che controtempo, ― loro sono così ― inseguendo ad ogni costo quella stella, fino ad accanirsi, si imbatteranno in una realtà plumbea e stagnante, costellata di riti e rituali, anzi un vero e proprio Piano di Lavoro, presso quel luminare della ginecologia, il cui nome è tutto un programma: “Centanni”. (Come hai fatto a creare un ritratto di antropologia borghese così calzante? E quanta ironia “manzoniana” in quelle pagine). Nel suo studio al Vomero, dal campanello in ceramica, prometterà di dare loro ciò che più desiderano. E invece…

Questa coppia, che hai ad arte costruito, sembra indissolubile, come un’Entità, eppure si allenta, non è più in sincrono, qualcosa che sembrava granitico si disgrega con addosso anche la litanìa collettiva e sociale, quella gravosa zavorra all’unisono del poverininonhannoavutofigli. Inevitabilmente, questa Entità, che Entità non è più, si rifugia nella ricerca della soluzione, invischiandosi in un vortice di cartomazia ginecologica e marketing del sogno da cui finirà per essere schiacciata.

Il pensiero magico ― associato ai rituali, che dagli esami clinici all’alimentazione rigida, sono sempre più svilenti per la propria dignità di donna ― è via via più angosciante. La lettrice donna empatizza e come Lara si sente un automa in balìa della procreazione. Della persona sembra essere rimasto ben poco. Dov’è la vecchia Lara? Anche il sesso ha dei nuovi vincoli, non è più fare l’amore, non è più “tatto, sforzo, sinapsi collegate, affinità elettive e aliti confusi”, ma solo una “scorciatoia per la maternità”. Lara si sente un manichino. È così che il Piano di Lavoro diventa una gabbia.

Il tempo delle stelle: una forza, una ribellione, una nuova idea di maternità

Eppure, Massimiliano, una forza, una timida, insidiosa ribellione per me emerge: sta nelle birre clandestine con cui Geppe e Lara brindano, facendo riechieggiare i bicchieri in un suono che sembra essere eterno, dopo essere stati allo studio del luminare “Centanni”, il garante della maternità, e in un pacchetto di sigarette, tirato fuori dal comò come in un raptus, quello stipato da parte, già ai primi tentativi di rimanere incinta. “La prima boccata le procura un piacere indescrivibile”, e da lì, che dentro, muoverà qualcosa di reazionario: istituire una nuova idea di maternità.

“Ogni anno la nocciolaia becca i semi dell’albero e va a nasconderli in montagna, sulle Alpi, così il pino cembro può riprodursi. Non ha a che fare con l’accoppiamento né con l’impollinazione, eppure dall’alleanza tra un animale e una pianta nasce la vita. Non è meraviglioso?” Sarebbe stato così adottare Fatima, una bambina, metà rom, metà nigeriana dal centro in cui Lara lavora come operatrice.

Il senso di un accudimento non c’è in tutte, ma quando è presente in una donna, cos’è se non la forma più incondizionata di maternità? “Nessuna creatura che fosse stata partorita dal suo grembo, sarebbe stata più adeguata di Fatima”.

Salvare per salvarsi è la nuova maternità. Lara in questa fase però non sa bene che dovrà strappare la bambina a ciò che resta della sua disgraziata famiglia, un padre in preda a un incerto e scomodo destino. Certo, la Lara quarantenne si era già resa conto che “lavorare dalla parte del bene, richiedeva un paradosso. C’era bisogno che fossero commesse ogni giorno delle cattive azioni”. Stavolta la cattiva però doveva essere lei, che freddamente con la complicità di Geppe, avrebbe dovuto seguire la strada del cinismo a fin di bene.

“Non dobbiamo tornare per forza insieme. Ma dobbiamo sposarci”, questo era l’altro piano per istituire il nuovo progetto, al fianco di Geppe, la sua rinnovata idea di maternità, cucita su musura su se stessa.

Memorabili queste pagine dedicate all’espediente del matrimonio, che si palesa meglio nella mente di Lara in quel pomeriggio del 7 gennaio 2015, quando il feretro del loro cantante preferito, Pino Daniele, entra in piazza Plebiscito tra migliaia di persone silenziose e in lacrime. Un momento che al lettore appare poeticamente stridente, per ragioni di tempismo. Stridente un po’ come me, Massimiliano, che ti scrivo questa lettera su un giornale, mentre il Napoli gioca per la gloria del suo scudetto.

Ma l’Entità, così come ami definire questa coppia, nella sua corsa contro il tempo, non riuscirà ad avanzare nell’impresa. Il tempo delle stelle è fugace e loro non hanno abbastanza pelo sullo stomaco: “Non è morto solo un cantante, lo sappiamo, perché stiamo morendo anche noi, intanto è così che inizia, quando se ne vanno le persone che hanno costruito i nostri ricordi, quando muoiono gli artisti che hanno costruito la loro arte per noi, quando ascoltiamo una canzone e quella voce non dirà mai più nient’altro, ma smette di essere viva e diventa passato”. È proprio forse in questo lutto che capiscono che il destino non si può forzare. Sarebbe come un accanimento terapeutico verso una stella che è già oltre.

Il tempo delle stelle: “A volte i limiti possono salvarti”

il tempo delle stelle

Sarà questa consapevolezza, questo saper lasciare andare a unire nuovamente i tuoi Lara e Geppe? Ora verso quel figlio c’è un sentimento nitido “Stellina, dovresti essere informata del fatto che tu, in quel futuro, non avresti trovato spazio. Ogni stella ha il suo tempo e il tuo ormai era passato”. Una mediazione diplomatica tra loro e la realtà li mette davanti a un sano confine: “A volte i limiti possono salvarti. Soprattutto da te stesso”.

E da questo limite, il trasalire di quella stella, per compensazione, è una verità da tenere come una copertina di Linus, lì a scaldarti. “Solo ciò che ami e il dolore passato esistono: il primo puoi coltivarlo e farlo crescere, al secondo devi dare sepoltura”. Sì, c’è un tempo in cui “l’odio esce dalla porta senza mai più farvi ritorno”. Proprio come accade ai tuoi personaggi, caro Massimiliano. Attraverso il percorso di consapevolezza, che sembra più un’espiazione, riusciranno davvero ad andare incontro a se stessi. Quindi a essere liberi. Grazie per averci restituito con il tuo romanzo una boccata di ossigeno, e un affaccio, nonostante la fatica, sull’orizzonte della libertà. “Non importa, ci saranno altre stelle e alla prossima saremo in tempo”.

il tempo delle stelle

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Silvia Buffo
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Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.
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