L’Aspromonte di Criaco: “Noi esistiamo, ci siamo e non ci sentiamo inferiori a nessuno”

Silvia Buffo
Silvia Buffo
Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.
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Ci sono dei luoghi magici, trasudanti di storia millenaria, confinanti con noi ma invisibili a noi, che non ci è dato conoscere fin quando qualcuno non ce li racconta. Meritano di essere conosciuti nel profondo, al di là del velo di Maya che li avvolge, e meritiamo di conoscerli, perché conoscerli è un regalo per l’anima. L’Aspromonte è fra quei luoghi sconosciuti, emarginati, fraintesi nella propria essenza. La nostra redazione ha chiesto un’intervista a Gioacchino Criaco che, a partire dal romanzo Anime nere, è testimone diretto di questo mondo, di cui ci ha raccontato la natura più autentica, e chi può farlo meglio di chi ha vissuto visceralmente quei luoghi? Criaco è figlio di pastori, è nato ad Africo nel 1965, un piccolo paesino ai piedi dell’Aspromonte sulla costa ionica calabrese. Il 2008 è un anno importante per lui, con Anime Nere, pubblicato da Rubbettino, si immette nel binario narrativo delle terre senza voce. Il suo romanzo d’esordio, ricco di emotività e valore documentaristico, è fotografia di quella che possiamo chiamare ‘terra di mezzo’. Se si desidera conoscere ciò che accadeva in Aspromonte negli anni dei sequestri, se si desidera far luce in quell’universo tacciato sempre di essere oscuro, attraverso la lente del pregiudizio e dell’approssimazione, bisogna conoscere Criaco e le sue Anime nere, si scopriranno le vere ragioni di quell’inferno, che per millenni inferno non è stato.

L’INTERVISTA A GIOACCHINO CRIACO SU ANIME NERE.

1. Il tuo romanzo ha un grande valore documentaristico e antropologico. È il ritratto dell’Aspromonte nella sua essenza più vera. Come hai pensato di raccontare la storia di Anime Nere?

Anime nere non è un romanzo pensato, semplicemente buttato su carta, dopo molti anni in cui vivevo a Milano, sono andato via e sono tornato per alcuni anni sull’Aspromonte, sono sceso pochissimo nel paese nuovo, in pratica dopo questi anni passati in montagna, mi sono messo davanti al computer e in quattro giorni ho scritto questa cosa che magari la montagna stessa mi aveva raccontato.

2. “Chi là nasceva là moriva”, si legge nelle prime pagine. Una sorta di fatalismo cosmico emerge sin da subito..

Più che fatalismo, penso sia la tragedia greca. I posti che racconto, sono i posti della Grecìa aspromontana, l’essenza è quella della tragedia, hanno poi una lingua che non ha il futuro nei verbi, possono parlare al passato o al presente, il passato e il presente hanno rappresentato per migliaia di anni la nascita e la morte in quei posti, per migliaia di anni era tutto stanziale, c’era ‘una certezza’. Nell’ultimo secolo è svanita.

3. La voglia di riscatto è un modo per uscire da un destino segnato?

I ragazzi di Anime nere non hanno voglia di riscatto o ambizione, come oggi la possiamo intendere, hanno questa convinzione che vivranno poco, che tutto quello che dovranno fare è prendersi tutto molto velocemente. Nell’ultimo secolo sono stati vittime, e poi carnefici di altri, di una cultura del tipo “Tanto non c’è nulla da fare”, delle carezze sulla testa, delle pacche sulle spalle, di una piccola borghesia che voleva mantenere un piccolo minuscolo potere locale ai danni di questa maggioranza di popolo calabrese, allora si inculcava a questi ragazzi il non poter far nulla, il destino segnato.

4. A livello stilistico emerge un affascinante chiaroscuro emotivo. Quando hai pensato che il libro sarebbe potuto divenire un film?

Appena uscito il libro hanno iniziato a farci delle offerte per l’acquisto dei diritti da parte di diverse case di produzione, i diritti erano a metà fra me e l’editore Rubbettino, che ha avuto la lungimiranza, posso dirlo adesso, di lasciare a me la scelta, per cui ho incontrato i diversi produttori e ho scelto la produzione che aveva dentro un regista come Francesco Munzi, io conoscevo le sue opere, le ho guardate di nuovo, e mi sono convinto che sarebbe stato l’unico in grado di fare un film del genere, è chiaro che quando ho scritto il libro, non pensavo che potesse fare tutta questa strada ma poi quando è arrivata la proposta filmica sono stato sicuro di aver fatto la scelta giusta.

5. Il crimine appare come una via esistenziale, come è stato raccontare questo iter criminale dall’Aspromonte a Milano?

Non ci sono altre strade, nessuno gli ha insegnato altre strade per fare qualcosa nella loro vita che già sanno sarà breve. I padri o i nonni che sono emigrati prima di loro, appunto nel secolo precedente, da fine ‘800 e per tutto il ‘900, alla fine non sono riusciti a realizzare nessun tipo di evoluzione, sono riusciti a sopravvivere senza poter cambiare la condizione dei figli, quindi è un esempio che non gli trasmette nulla di positivo, conferma questa convinzione che hanno maturato, che con il lavoro, con il cercare di integrarsi non arriveranno a nulla, che l’obiettivo di chi li ha portati fuori dal loro mondo è di omologarli e non di integrarli e loro hanno questa sorta di rivoluzione anche contro gli insegnamenti dei padri e individuano come unica arma possibile, l’arma del crimine che è la più facile, quella che conoscono meglio e la conoscono anche per cultura, la conoscono geneticamente, antropologicamente perché comunque sia si credono figli, progenie di una stirpe guerriera che dentro l’Aspromonte ha resistito per migliaia di anni a qualsiasi tipo di invasione.

6. In Anime nere hai raccontato una generazione che conosci molto bene, la senti ancora così vicina?

È la biografia dei ragazzi di Africo e di migliaia e migliaia di ragazzi aspromontani che fra la fine degli anni ’60 e ’70 sono andati via, che si sono comportati, come dicevo prima, in modo diverso rispetto ai padri e ai nonni. È quella generazione che è la mia generazione, sono ragazzi che sono cresciuti insieme a me, che ho visto nascere e crescere giù, e ho poi rivisto a Milano, quando facevo l’avvocato, e li vedevo dietro le sbarre delle gabbie che stanno in tribunale, quindi è stato un racconto estremamente doloroso perché è il racconto della mia gente.

7. Sei contento di aver scritto un romanzo in italiano, riportando quel mondo anche a chi ne è lontanissimo? La sceneggiatura del film è straordinaria, il dialetto è l’enfasi del realismo, pensi che abbia arricchito il tuo racconto?

Ho scritto Anime Nere di getto ma senza pensare molto allo stile, è venuto in quel modo. L’unica cosa che ho osservato era quella di scrivere nello stesso modo in cui loro avrebbero scritto e parlato, un italiano che è strano. Anime nere non è scritto in un italiano perfetto, è la traduzione in italiano di ciò che dice un aspromontano che parla, la traduzione letterale di un calabrese: quando dovevo parlare di un ‘gregge di pecore’, dicevo una ‘mandria di pecore’, perché l’aspromontano dice così per indicare il gregge. Quindi ho fatto una traduzione letterale della lingua dei montanari. Ci siamo resi conto man mano che lavoravamo che nel film potevamo far convergere la scelta linguistica totalmente sul dialetto. Francesco ha avuto l’intelligenza e l’umiltà di capire che doveva conoscerlo quel mondo, ci abbiamo lavorato quattro anni, abbiamo lavorato in Calabria, in Aspromonte, abbiamo lavorato anche a Roma, lui ha avuto la possibilità ma ha avuto anche la voglia soprattutto di conoscerlo profondamente quel posto per fare poi un film che era con l’Aspromonte, insieme agli africoti e i calabresi e non contro o a favore, era semplicemente lavorare insieme e man mano che lavoravamo ci siamo resi conto che utilizzando il dialetto, tutti davano il massimo delle proprie possibilità. E quindi partendo da una sceneggiatura che era completamente in italiano, con qualche battuta in dialetto, siamo arrivati a fare un film tutto in calabrese e questa è stata anche la fortuna del film.

8. Inevitabili ragioni autobiografiche della tua origine d’Aspromonte ti portano a raccontare questa storia, quanta memoria personale lasci nel tuo romanzo?

Raccontare quel mondo, raccontare l’Aspromonte più che partire dalla mia testa, veramente è un racconto che è partito da questo vivere in simbiosi con la montagna, una simbiosi che ho avuto da ragazzo e poi con maggior coscienza da adulto. Per noi l’Aspromonte è femmina, non è un monte ma è una montagna. È femmina, è madre di tutti noi Aspromontani, per noi è ‘Mana Ge’, è la madreperla che è stata fecondata da un vento che arriva da lontano, il libeccio, infatti, Africo è uno dei tanti nomi del Libeccio. Quindi quel popolo è partorito da questa madre, che ha come sposo il Libeccio, ma è una madre e una sposa che divide il padre e lo sposo con lo Ionio, che per noi è sempre femminile, ‘i thalásse’, “la mare”. Per noi è femminile anche il mare. Noi siamo un popolo composito, figli di un padre che viene da lontano e figli chi della montagna e chi del mare. E la nostra fortuna è stata questa, di stare in questo luogo, che è stato paradiso per millenni, che era l’Aspromonte. Noi ci siamo stati bene fin quando qualcuno ha deciso di portarci via. Questo portarci via e spostarci in un posto in cui non avevamo più un ruolo, non eravamo in quella casella costruita da millenni, non avevamo più quel rapporto stratificato da una storia millenaria, ci ha reso indiani dentro una riserva e là siamo impazziti un po’ tutti e c’è una generazione che è impazzita più di tutte e che ha fatto il disastro delle Anime Nere.

9. La montagna è percepita come dimensione spirituale, questo denota una sottile nostalgia verso i tuoi luoghi, in certi casi dipinti come placidi e primordiali, benevoli. Forse anche chi li abita è della stessa natura?

A vedere quei ragazzi, vederli da adulti, e conoscerli per come li racconta la cronaca nera, ci si ferma alla qualità di mostri che è stata data loro e che realmente gli è appartenuta in questa vita al di fuori del loro mondo, ma se hai visto queste persone come erano da bambini, da ragazzini con i loro sogni, le loro capacità affettive, se tu hai questo tipo di conoscenza diretta, tu vai oltre, oltre il mostro. Io so benissimo che avevano delle doti umane ma anche dei talenti altissimi, che in condizioni di normalità sarebbero state altre persone. Stajano che è venuto ad Africo negli anni ’70 per scrivere il suo libro, nella prima pagina parlava degli Africoti come riottosi, ribelli e irredimibili, con la puzza di zolfo. Noi eravamo convinti che saremmo finiti all’inferno, che avevamo questo peccato originale, che in realtà non abbiamo ma lo abbiamo scoperto molto tempo dopo, quindi questa condizione estrema ha annullato tutte le qualità umane, tutte le intelligenze che c’erano. Tutto è finito in questo rivolo del male.

10. Pensi di aver riscattato la tua terra, afflitta da pregiudizio e discriminazione?

Non penso chiaramente di aver riscattato la mia gente perché sono arrivato alla conclusione come tanti che non avevamo peccati, che non dovevamo redimerci da nulla, ci sono tantissime persone che hanno sbagliato, tante che hanno fatto dei disastri, ma non si può dire che tutto il male sia stato originato da loro, dalle loro azioni, forse c’è qualcosa all’inizio che ha scatenato questo mostro, un mostro che non esisteva, perché per migliaia di anni non mi risulta che ci sia stata un’invasione aspromontana a un’altra città a un altro mondo, a un’altra popolazione, sono sempre stati nei loro confini, con la loro fame, con le loro fatiche, il loro sudore, le proprie epidemie, i loro terremoti ma non sono mai andati a disturbare nessuno, quindi sostanzialmente una civiltà pacifica. Se li avessero lasciati nei loro confini, non avrebbero mai fatto del male a nessuno, nonostante questo sono usciti dai loro confini, sono andati in giro per il mondo per più di un secolo, non hanno fatto altro che lavorare. Il fenomeno criminale di matrice calabrese è esploso dagli anni ’70 in poi, quindi non possiamo associare una genetica del male a quel mondo.

11. Un avvocato come te, come si trasforma in uno scrittore? Come è stato?

Fare l’avvocato a Milano, andare in tribunale, era diventata una cosa non più sopportabile, sia perché quel tipo di lavoro richiede ore e ore chiusi in ufficio e non ce l’avevo questa forza di stare in ufficio chiuso a Milano a studiare le sentenze di cassazione, ma emotivamente la parte più pesante era che alla fine la maggior parte degli imputati a Milano, degli arrestati, erano calabresi, c’è stato un lungo periodo in cui erano quasi tutti calabresi, e vedere dietro le gabbie la gente che avevo visto nascere, era una cosa che emotivamente mi distruggeva, non potevo vivere della loro tragedia, non ce la facevo più.

12. “Chi là nasceva là moriva”: è l’unico epilogo possibile?

E alla fine poi è stato così, chi là è nato, là è morto, poi dopo Anime nere ho continuato a scrivere, ogni libro è un capitolo, di un unico romanzo di questa minoranza greca che sono i greci di Aspromonte. Sono come il popolo delle tartarughe che nidifica nelle spiagge ioniche, nascono in quelle spiagge, scompaiono in questo buco nero che nemmeno la scienza è riuscita a spiegare, scompaiono per tantissimi anni, ma se qualcuna di loro sopravvive, alla fine tornerà in quel posto. Agli aspromontani, di cui parlo io, è successo questo, sono andati via, sono finiti in tantissimi buchi neri, molti di loro non hanno trovato la strada del ritorno ma quelli che sono sopravvissuti a questa tragedia, a questa diaspora dell’Aspromonte, torneranno su quelle spiagge e sono tornati su quelle spiagge, sono tornati a morire là. Chi là è nato là torna a morire.

13. Che tipo di eredità pensi ti abbia lasciato Alvaro? Che responsabilità senti verso il suo racconto?

Alvaro è uno degli scrittori più grandi del ‘900, un calabrese europeo, lui è stato tante cose, è stato scrittore, è stato giornalista, soggettista, sceneggiatore, la maggiorparte dei film del Dopoguerra portano la sua firma, nel soggetto o nella sceneggiatura, penso che questa sua intelligenza enorme sia stata un limite per la parte narrativa di scrittore. Aveva talmente tanta conoscenza, tanta intelligenza che concentrarsi su una sola cosa era per lui limitativo, penso che sia stato e sia tuttora pochissimo letto, in realtà ci si limita a parlare di alcune massime di Alvaro ma nessuno ha letto in modo profondo tutta la sua opera, che è immensa, se lo avessero fatto avrebbero compreso tante cose dell’Italia, dell’Europa ma soprattutto del Sud. Fuori dalla Calabria lo hanno quasi stereotipato, si sono presi da lui solo alcune cose che erano funzionali alla descrizione di un Sud vinto, avvinto, afflitto, perso e io sono convinto che non era nelle sue intenzioni. Ad esempio nel racconto del pastore, che nella capanna di frasche e fango aspetta che il torrente se lo porti via, lui voleva dire il contrario rispetto a come è stato percepito, voleva mostrare quanto di eroico e coraggioso c’è in un pastore, fare la vita di pastore in Aspromonte era veramente un’impresa, da uomini coraggiosi e non da vinti o afflitti. Così nel dubbio alvariano che il vivere onestamente sia inutile, là c’è una avversione, una lotta verso un mondo che è considerato totalmente ingiusto, ora essere accostato a una personalità di così tanta qualità e complessità è chiaramente una cosa che fa piacere ma sono paragoni impossibili, Alvaro è stato un autore talmente grande, ci sono delle vicinanze, c’è una prosecuzione del racconto del Sud fatto da chi il Sud lo conosce, la voglia di uscire fuori dallo stereotipo dei vinti, la storia di un Sud che non si arrende, tutt’altro, ma è anche il racconto di una spiegazione di un punto di vista di uno del Sud, un punto di vista meridionale, mediterraneo, è la rivendicazione di esistenza e di intelligenza: noi esistiamo, ci siamo, ci siamo sempre stati e non ci sentiamo inferiori a nessuno. di Silvia Buffo

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