Great Resignation, è boom di licenziamenti tra i giovani. Quali sono le cause?

Great Resignation è il fenomeno scoppiato oltre oceano nel periodo successivo alla pandemia che sta causando moltissimi licenziamenti. Si tratta di una crisi nel mondo del lavoro o di un nuovo approccio di tipo esistenziale?

Melissa Matiddi
Melissa Matiddi
Esperta in comunicazione e digital marketing, studia lo yoga e le discipline orientali. Ama creare, leggere e viaggiare. Silenziosa ma rumorosa, è sempre pronta a varcare nuovi orizzonti.
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The Great Resignation è il fenomeno di massa, partito dagli Stati Uniti nel post pandemia, che sta portando milioni di giovani al licenziamento. Anche in Italia, l’ondata di dimissioni volontarie sta colpendo duramente il mercato del lavoro.

Great Resignation: che cos’è?

The Great Resignation o Big Quit è la grande fuga dal posto fisso che si sta diffondendo a macchia d’olio in tutto l’Occidente. Il termine è stato coniato da Anthony Klotz, professore di Management alla Mays Business School del Texas, per identificare l’aumento del numero di abbandoni lavorativi avvenuti negli Stati Uniti con la fine del lockdown. Sono state registrate nel marzo 2021 il 2,4% di dimissioni, un numero record in 20 anni di storia americana.

Questo mood ha letteralmente sdradicato nei giovani il concetto di lavoro. Secondo i dati, registrati e analizzati dal Dipartimento di occupazione, il tasso di dimissioni è cresciuto al 2,9%, a dicembre 2021 sono andati in fumo 101mila di posti di lavoro, principalmente donne e giovani. Il tasso di disoccupazione è sceso nuovamente al 30%, riconfermando il nostro paese all’ultimo posto nella scaletta per l’occupazione giovanile.

La grande dimissione di massa sta colpendo un po’ tutti i settori: dai dirigenti delle banche d’affari, alle catene di ristorazione, fino ad arrivare ai piccoli e medi commercianti. La tendenza ad andare contro corrente e a rassegnare le dimissioni sta coinvolgendo circa 4-5 milioni di persone. Solo in Italia i dati relativi agli abbandoni del posto di lavoro sono arrivati a quota 800mila.

Le fasce d’età maggiormente coinvolte sono state quelle dei 26-35enni e 36-45enni. Il 60% delle aziende si trova costretta a fronteggiare la problematica delle dimissioni.

Quali sono le cause?

The Great Resignation è decidere di prendere in mano la propria vita senza dover subire le pressioni di un capo o di un’azienda, è scegliere di lanciarsi in qualcosa di nuovo senza un piano b. Sempre più persone stanno decidendo di rivoluzionare le proprie vite e di dare priorità al benessere psicofisico. Ma quali sono le cause che stanno portando i giovani alla grande fuga?

Le motivazioni principali legate a queste migrazioni sono state la depressione, la sindrome da burn out, l’aumento di produttività, l’ansia e gli attacchi di panico causati dalla paura verso la pandemia.

Il lockdown è stato il periodo di tempo più triste e cupo del 2020. Molti lavoratori, costretti ad essere confinati nelle proprie mura domestiche, hanno ritrovato, seppure con fatica, le abitudini di una volta.

L’interesse, perso e poi ritrovato nella qualità della vita, ha ridisegnato le priorità esistenziali delle persone. Niente più corse nel traffico, attese per prendere i figli a scuola, corse per andare al supermercato. Per assurdo, il tempo trascorso a casa durante la pandemia, da un lato ha risvegliato quell’amore verso noi stessi che avevamo dimenticato a causa della frenetica vita lavorativa, dall’altro ha acutizzato il malessere mentale, facendo impennare i casi di depressioni ossessive.

Durante la pandemia abbiamo sanificato le nostre attività lavorative. Non conoscendo la fine dell’emergenza sanitaria, le persone sono state costrette, dal senso di inadeguatezza e di impulsività, a compiere decisioni drastiche come l’abbandono del posto di lavoro.

Tra l’altro, una delle motivazioni che ha spinto i dipendenti a sperimentare questa nuova forma di libertà è stata la stanchezza provocata e causata dalle interminabili ore di smart working, il lavoro da casa. Gran parte della forza lavoro ha reagito alla produttività lavorativa, interrogandosi sul proprio senso della vita e decidendo di riprenderne il controllo al più presto.

Un report di Microsoft ha affermato che il 40% delle persone sta seriamente pensando di terminare il lavoro entro la fine dell’anno. L’impatto di tale fenomeno sta colpendo duramente anche la generazione Z. In un primo momento, i nati tra il 1997 e il 2000, credevano di aver scampato il pericolo, ma essendo entrati in un momento in cui il mondo del lavoro è privato dal contatto umano, subiranno probabilmente anche loro gli effetti della Great Resignation.

“Proletari di tutto il mondo, unitevi”: dentro il fenomeno sociologico

I socialisti dell’era di Marx e di Engels sarebbero stati molto contenti della Great Resignation visto che avevano già previsto questa situazione nel lontano 1848 quando pubblicarono, all’interno del Manifesto per il partito comunista, il celebre motto:” Proletari di tutto il mondo, unitevi”. L’essenza dello slogan era risvegliare tutti i membri della classe operaia alla lotta contro il capitalismo.

Il motto è il simbolo del concetto filosofico dell’internazionalismo proletario in cui i partecipanti della classe operaia erano spinti ad agire in solidarietà supportando i lavoratori di tutti gli altri paesi, andando perfino contro il proprio governo.

Il concetto di lavoro subisce da sempre l’influsso identitario della società alla quale appartiene. Per i nostri antenati del dopoguerra, il lavoro era un mezzo per poter uscire dalla condizione di miseria e povertà in cui si viveva, un modo per riscattarsi a livello economico e sociale. L’entrata sicura di uno stipendio ha rappresentato, senza ombra di dubbio, il sistema per raggiungere e realizzare i propri sogni: l’acquisto di una proprietà, di un’automobile o il mettere su una famiglia. Tutti tasselli che si sono rivelati necessari al miglioramento delle condizioni di vita. Le generazioni più giovani invece hanno riscontrato nel lavoro l’opportunità per una realizzazione personale. È stato soltanto grazie allo studio e quindi all’istruzione che molti di noi hanno potuto inseguire il proprio stile di vita.

Quindi l’idea di lavoro è mutata con il tempo: prima era la fonte di sostentamento e di sopravvivenza, oggi è percepita come obiettivo di vita.

Nel particolare momento storico che stiamo vivendo, il lavoro è visto come forma di assoggettamento obbligato in cui si lavora solo se non ci sono alternative abbastanza feconde da permetterci di vivere.

Il sogno nel cassetto non è più quello di svolgere una mansione appagante ma di esprimere la propria libertà senza i dettami della società. Questo tipo di ragionamento può essere fatto soltanto da chi possiede un tenore di vita parecchio modesto. Tuttavia, al contrario dell’epoca precedente in cui si lavorava per apparire, oggi, i giovani preferiscono condurre delle vite meno dispendiose e più qualitative in termini di profitto salutare. Questa nuova tendenza promuove la libertà degli individui nel seguire le aspirazioni personali, prescindendo dai vincoli economici e lavorativi.

Tik tok: un lavoro che non è lavoro

La metafora del lavoro che non è un lavoro, ci aiuta a comprendere il fenomeno della Great Resignation. Il social network, Tik tok, anche conosciuto come Douyin, è stato lanciato nel settembre 2016 in Cina, ed oggi, è l’app più scaricata nel mondo con 745,9 milioni di download.

Le generazioni più giovani e non solo, si sono infilate in questo social sperimentando, anche in fase adolescenziale, vantaggi economici, sociali e popolari. Soltanto due settimane fa, è uscita la notizia su Forbes Italia che le sorelle D’Amelio, celebri tik toker americane, hanno guadagnato 27,5 milioni di dollari in un solo anno.

Tik tok è il mezzo più adatto per sviluppare e lanciare la propria fantasia tramite dei video strettamente personalizzabili.

Il binomio creatività divertimento non solo è assicurato dalla popolarità della piattaforma ma è anche redditizio per gli ottimi guadagni. Questo lavoro si traduce in sponsorizzazioni di brand, comparse in tv, condivisione di video e balletti, partnership e sviluppo di prodotti e idee personali. Quello che sorprende è la semplicità con cui i protagonisti riescono ad attirare e ad ammaliare i loro seguaci.

Se questo social aiutasse veramente le generazioni ad esprimere se stesse, a sentirsi libere da orari e pressioni, badando più o meno alla forma di guadagno, saremmo davanti ad una svolta: la soluzione alla problematica della Great Resignation è davvero Tik tok? Rispondendo alla domanda, mettiamo da parte la presunzione automatica generata dalla risposta e da tutta la riflessione, quello che appare certo è la transmigrazione delle persone verso scenari più liberi e più sani.

La conformazione identitaria del lavoro si sta adeguando ai canoni della società, imposti questa volta non dallo stato, inteso come organo lavorativo, ma dalle piattaforme social.

Leggi anche: Microsoft verso Tik Tok, una rivoluzione social?

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