Dipendente morto per il troppo lavoro: la sentenza condanna Sony a un maxi-risarcimento

La sentenza dell’Ufficio di verifica delle condizioni di lavoro del Giappone ha stabilito che la Sony dovrà risarcire la famiglia di un dipendente morto per il troppo lavoro.

Asia Buconi
Asia Buconi
Classe 1998, romana. Laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali, ama l’attualità e la letteratura, ma la sua passione più grande è la sociologia, soprattutto se applicata a tematiche attuali. Nel tempo libero divora film e serie tv.
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Quello del “superlavoro” è in Giappone un vero e proprio problema sociale. Qui, la morte per infarto a causa dello stress e lo sforzo lavorativo viene definita col termine “karoshi”.

Il Giappone è uno dei pochi paesi in cui il fenomeno “karoshi” è riportato nelle statistiche delle cause di morte.

Diverse campagne sociali si sono mosse per combattere il fenomeno, difficile però da estirpare, specie nelle grandi multinazionali giapponesi che, espandendosi oltreconfine in paesi come Cina, Corea e Taiwan, hanno esportato anche fuori la nozione di karoshi.

Recentemente, però, l’Ufficio di verifica delle condizioni di lavoro del Giappone ha emesso una sentenza importante: il decesso di un dipendente Sony negli Emirati Arabi Uniti nel gennaio 2018 ha condannato la multinazionale a risarcire i parenti della vittima.

Morto per superlavoro: il caso del dipendente Sony

La vittima, morta tre anni fa a causa di infarto, era un quarantenne assunto nel 2007 a tempo indeterminato e si occupava del marketing dei prodotti elettronici Sony a Dubai.

L’uomo, nei tre mesi precedenti, aveva lavorato 80 ore mensili medie in più dell’orario previsto dal contratto. Alla famiglia, inizialmente, non era stata riconosciuta la richiesta di un risarcimento per infortunio sul lavoro. L’azienda, infatti, non aveva voluto verificare se vi fossero responsabilità, perchè sulle registrazioni dei badge non risultava che il dipendente avesse fatto straordinari.

Per questo motivo, i parenti hanno dovuto effettuare un’inchiesta indipendente con i propri legali, risalendo agli accessi sul computer di lavoro e interrogando i colleghi della vittima. Si è così scoperto quante ore in più avesse effettivamente lavorato l’uomo, straordinari che, alla fine, lo avevano portato alla morte. La moglie, di fronte all’episodio karoshi che ha coinvolto il marito, ha detto:

Mio marito era un uomo con un forte senso di responsabilità e con un carattere sempre gentile.

Ma nei mesi precedenti alla sua morte, era diventato nervoso e stanco.

Quel giorno, quando uscì di casa, aveva un pessimo aspetto. Non tornò mai più.

Pur essendo morto per l’eccesso di lavoro, nell’azienda non si è voluto accertare se vi fossero delle responsabilità, si è trattata la questione come se nulla fosse accaduto.

Io vorrei che la nostra diventasse una società in cui non si muore per il troppo lavoro, in cui i nostri figli possano lavorare in sicurezza, coltivando le loro speranze.

Le indagini indipendenti della famiglia, che hanno fatto luce sugli orari disumani della vittima nei tre mesi precedenti alla morte, hanno portato al pronunciamento della sentenza storica dell’Ufficio di verifica delle condizioni di lavoro giapponese, che ha riconosciuto la morte del dipendente come caso karoshi e condannato la Sony a un risarcimento.

Leggi anche: Rider ucciso sul lavoro, guadagnava 15 euro a sera. La moglie: “Come si può consentire tutto questo?”

Dipendente Sony morto per il troppo lavoro, la risposta dell’azienda sul caso

morto per superlavoro un dipendente sony sentenza storica

A seguito del pronunciamento dell’Ufficio di verifica delle condizioni di lavoro giapponese, avvenuto solo tre anni dopo la morte della vittima, la Sony ha preso atto e ha così risposto con un comunicato:

Preghiamo dal profondo del cuore che il nostro collega possa riposare in pace.

Prendiamo atto con sincerità del riconoscimento da parte dell’Ufficio di controllo delle condizioni di lavoro e ci impegnamo con la massima serietà nel prevenire gli infortuni sul lavoro e nel controllare le condizioni di salute dei nostri dipendenti.

Morte per superlavoro o karoshi: in Giappone un vero e proprio problema sociale

morto per superlavoro un dipendente sony

Il primo caso di karoshi è stato segnalato in Giappone nel 1969, con la morte di un operaio di 29 anni nel reparto trasporti di un giornale giapponese.

Nel 1987, mentre l’interesse pubblico verso il fenomeno era aumentato, il Ministero del Lavoro giapponese ha cominciato a pubblicare le statistiche sulla morte per superlavoro.

Particolare scalpore ha destato il caso di Miwa Sado, una trentunenne reporter della televisione pubblica giapponese NHK, morta nel luglio 2013 dopo aver svolto 159 ore di straordinario in un mese (e solo dopo quattro anni la NHK ha dovuto rivedere le norme contrattuali in merito).

Il fenomeno sembra però insito alla storia e al modo di considerare le prestazioni lavorative utilizzato in Giappone. Il paese nipponico, uscito devastato dalla seconda guerra mondiale ma diretto verso un boom economico senza precedenti, doveva affrontare infatti una crescita occupazionale mai vista. Inoltre, come accade in molte realtà, il lavoro è qui valutato secondo la quantità e non secondo la qualità. Le promozioni non dipendono dai meriti , ma dall’età e dagli anni di servizio. In media si lavora dodici ore al giorno, di solito tutte di seguito. Si tratta di un paese che si aspetta dai propri cittadini sacrificio e costanza, ma siamo ai limiti del sopportabile. Non sorprende che l’aggiungersi di prestazioni straordinarie a orari già così duri, possa portare in molti casi alla morte.

Secondo gli ultimi dati disponibili, risalenti al 2019, ci sono state oltre 174 morti per superlavoro, la maggior parte delle quali per suicidio. Secondo le autorità giapponesi, infatti, non conta tanto la causa clinica del decesso (infarto, ictus o altro), ma l’ambiente e le condizioni di lavoro entro cui questo è avvenuto.

Nonostante molti lavoratori stremati decidano di togliersi la vita, i dati mostrano pure che il numero complessivo dei decessi legati a malattie cerebrovascolari o cardiovascolari nella fascia di età che va dai 20 ai 60 anni si attesta sui 35.000 casi all’anno e si stima che un terzo di questi sia da ricondurre alla morte per superlavoro. Sono da annoverare nel fenomeno karoshi anche tutte quelle morti connesse a mancate cure mediche, dovute ad un lavoro che non lascia neanche il tempo libero necessario per recarsi da un medico.

Alla luce di tutto ciò, sembra piuttosto evidente l’importanza della sentenza dell’Ufficio di verifica delle condizioni di lavoro del Giappone, che ha portato al risarcimento della famiglia del dipendente Sony da parte della multinazionale giapponese.

La speranza è che si capisca presto che il lavoro deve nobilitare l’uomo, non ucciderlo. Il fenomeno karoshi giapponese contribuisce a creare quello che a tutti gli effetti appare un “proletariato moderno”, sfruttato e anche ucciso in nome del profitto. Sarà necessaria una rivoluzione?

Leggi anche: Mondiali 2022, in Qatar morti almeno 6.500 lavoratori immigrati durante i lavori

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