Carola Rackete, chi è la capitana della Sea Watch che vuole salvare i migranti

Martina Mugnaini
Martina Mugnaini
Martina Mugnaini. Classe 1991. Nata e vissuta a Roma, ha un forte legame con le sue origini fiorentine. Laureata in Filologia Moderna alla Sapienza e giornalista, ama scrivere di tutto quello che riguarda l’arte, la letteratura, il teatro e la cultura digitale. Da anni lavora nel campo della comunicazione e del web writing interessandosi di tutto ciò che riguarda l'innovazione. Bibliofila e compratrice compulsiva di libri di qualunque genere, meglio se antichi: d'altronde “I libri sono riserve di grano da ammassare per l’inverno dello spirito” e se lo dice la Yourcenar sarà vero.
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In questi giorni non si sente parlare d’altro se non di Carola Rackete, la comandante della nave Ong Sea Watch 3 che ha deciso di disobbedire all’ordine del ministro dell’Interno Matteo Salvini e di entrare nelle acque territoriali italiane a Lampedusa per far sbarcare i 42 migranti da due settimane a bordo della nave. Ma non è sola, al suo fianco ci sono le altre dieci donne dell’equipaggio. Verena, la dottoressa che ha curato i migranti in queste due settimane che dice “Vi prego, fateci sbarcare che loro non ce la fanno più” e Haidi, la mediatrice culturale che spiega alle 42 persone a bordo cosa sta succedendo. E cosa sta succedendo esattamente?

Dall’atto di forza per salvare 42 vite all’indagine per favoreggiamento

Basta, ho deciso di entrare in porto a Lampedusa. So a cosa vado incontro ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo.

Così ha affermato Carola nel primo pomeriggio del 26 giugno quando ha deciso di forzare il blocco e di entrare nelle acque territoriali italiane per raggiungere l’isola di Lampedusa, nonostante il divieto del governo italiano. Da allora, la Sea Watch 3 si trova a poche miglia nautiche dal porto di Lampedusa, con a bordo 42 migranti, soccorsi nelle settimane precedenti nel Mediterraneo. Nei giorni scorsi la polemica tra la Capitana ed il Ministro degli Interni si era fatta accesa: “Non riporterò i migranti in Libia, né tantomeno in Olanda, vorrebbe dire circumnavigare l’Europa, sarebbe ridicolo”. Oggi è stata iscritta nel registro degli indagati per favoreggiamento e violazione dell’articolo 1099 del Codice della navigazione dalla procura di Agrigento che ha affermato come questo sia “un atto dovuto”, in seguito a una denuncia presentata dalla Guardia di Finanza. Dovranno essere valutate anche le decisioni delle autorità e del Ministero dell’Interno che non hanno permesso ai migranti di sbarcare. Secondo il Decreto sicurezza bis, la Sea Watch riceverà una multa di migliaia di euro e se se fosse disposto il sequestro della nave i migranti potrebbero scendere a terra come già accaduto. Leggi anche: Antonio, lo skipper di Procida vuole salvare i migranti in barca a vela

Perché la Sea Watch non è andata in Tunisia o a Malta

Siamo diventati ormai il palcoscenico del Mediterraneo. Come mai la Sea Watch neanche prova più ad avvicinarsi alle coste maltesi o alle coste greche? Semplice, a Malta come in Grecia non fa notizia. Hanno preferito restare 14 giorni a largo delle nostre coste anziché chiedere a La Valletta, Madrid o Atene lo sbarco

Queste le parola di Di Maio in post su Facebook. Il Ministro del Lavoro non è l’unico politico a domandarsi quale complotto ci sia dietro la decisione delle ong di far sbarcare i migranti in Italia, anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini se l’è chiesto spesso. La risposta a questa domanda in realtà è abbastanza semplice: il nostro paese occupa una posizione centrale nel Mediterraneo, si trova a poca distanza dalle coste della Libia, dalle quali partono il maggior numero di persone, è più attrezzato ad accoglierle di Malta, che è più vicina ma ha una superficie nettamente inferiore rispetto all’Italia e, soprattutto il nostro paese tutela i diritti umani più della Tunisia, che non ha una legislazione chiara e completa in questo ambito. Nel caso specifico di cui si discute tanto in questi giorni, il 12 giugno la Sea Watch ha soccorso 52 migranti a largo della Libia, 42 che si trovano ancora a bordo e 10 che sono sbarcati nei giorni scorsi per ragioni mediche. Il diritto internazionale e quello della navigazione prescrivono a qualsiasi nave compia un’operazione di salvataggio in mare di portare quelle persone in un porto sicuro, cioè in un territorio vicino geograficamente e dove il rispetto dei loro diritti umani è garantito. Analizzando la situazione ci rendiamo conto che i porti sicuri in cui poteva far rotta la nave erano quelli della Tunisia, di Malta e dell’Italia. Quelli della Libia non possono essere considerati sicuri, secondo gli accertamenti delle Nazioni Unite. In Tunisia manca una legislazione completa sul diritto d’asilo e anche che Malta non ha ratificato gli emendamenti alle convenzioni sulla ricerca e il salvataggio marittimo adottati nel 2014. In più La Valletta è piccola, ha pochi abitanti e, in proporzione, ha avuto molte più richieste di protezione internazionale rispetto agli altri stati di aiuto rispetto a tutti gli altri paesi europei. Leggi anche: Casa assegnata a famiglia Rom: stop a violenza e razzismo

E l’Olanda?

In questi giorni il Ministro Salvini e Giorgia Meloni hanno chiesto più volte perché la Sea Watch non facesse rotta in Olanda, lo stato di bandiera della nave. Ovviamente ci sono dei motivi ben precisi per cui l’Olanda non ha nessun motivo di intervenire: prima di tutto gli stati che concedono bandiera non hanno obblighi particolari nei confronti delle imbarcazioni, e poi l’Olanda, secondo le norme europee non è responsabile per quei migranti. Ma il motivo fondamentale è che è che l’Olanda non è il porto sicuro più vicino. L’unico modo per arrivare ad Amsterdam sarebbe stato quello di attraversare tutto il Mediterraneo, oltrepassare lo stretto di Gibilterra e circumnavigare l’Europa percorrendo le acque dell’Atlantico. Un viaggio lungo e pericoloso che avrebbe avuto un prezzo economico e umano decisamente troppo alto.

Chi è Carola Rackete, la capitana che parla 5 lingue e lotta per i diritti umani

Questa la situazione in cui si è trovata ad agire Carola Rackete. Trentun’anni, di nazionalità tedesca, è cresciuta a Hambühren, nella Bassa Sassonia. Ha studiato all’estero, alla Edge Hill University nel Lancashire, in Gran Bretagna. La passione e l’amore per il rispetto dei diritti umani e per l’ambiente l’hanno portata a 23 anni al timone di una nave a spaccare il ghiaccio del Polo Nord per uno dei maggiori istituti oceanografici tedeschi: l’Alfred Wegener Institute. A 25 anni è stata nominata secondo ufficiale a bordo della Ocean Diamond, stesso ruolo che rivestirà due anni più tardi nella Arctic Sunrise di Greenpeace. Poco più che trentenne ha comandato piccole barche per escursioni nelle isole Svalbard, nel mare Glaciale Artico. Carola collabora con la Sea Watch dal 2016. In passato ha lavorato anche con la flotta della British Antartic Survey e nell’estate del 2018 ha navigato nelle acque gelate dell’arcipelago della Terra di Francesco Giuseppe. Ora l’arrivo nel Mediterraneo dove ha vissuto probabilmente la sua esperienza più dura al timone, sia sul piano tecnico che su quello umano. Ha raccontato:

La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto ho sentito un obbligo morale: aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità.  

di Martina Mugnaini

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