giovedì, 2 Ottobre 2025
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Il punto sulla Palestina: 15 risposte dell’esperta Michela Mercuri

Tutto quello che c'è da sapere sulla questione palestinese, l'intervista all'esperta Michela Mercuri, docente di geopolitica.

Silvia Buffo
Silvia Buffo
Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.

In Palestina il quadro attuale è sempre più complesso e sfaccettato. Abbiamo allora scomposto i temi più scottanti in 15 domande a cui trovare risposte e delucidazioni: dal diritto all’infanzia violato alla narrazione mediatica polarizzante, dal possibile piano di pace alla posizione di Italia e Europa e al ruolo degli Stati Uniti, dal riconoscimento dello Stato di Palestina fino alla missione della Flottilla e alla mobilitazione in corso nelle città italiane.

Cosa sta succedendo davvero? Proviamo a fare chiarezza con una voce autorevole, dando la parola a Michela Mercuri, docente di Geopolitica del Medioriente, esperta in Storia contemporanea dei paesi mediterranei.

Palestina oggi, l’intervista a Michela Mercuri

1. La Flotilla e le mobilitazioni nelle città rappresentano una missione umanitaria internazionale di vera solidarietà che smuove l’opinione pubblica. Quanto questo incide sulle decisioni politiche?

Più che incidere sulle decisioni politiche, il dibattito sulla Flotilla incide sul dibattito politico: è stato utilizzato, diciamo così, dai politici per acquisire magari consenso o visibilità, su un tema sicuramente importante. Però non credo che questo possa incidere realmente sulle decisioni politiche. Stando invece alle mobilitazioni, che in molti casi sono delle vere e proprie proteste, stanno però sostituendo lo slogan “Palestina libera”, giusto e condivisibile, con lo slogan “Occupiamo tutto”.

Nel momento in cui le proteste sono legate al “Free Gaza” e al sollevare la questione su un’azione di Netanyahu, sono legittime perché manifestare è un diritto di tutti, diverso è perdere il focus con messaggi del tipo “Fermiamo tutto” poiché non ci sarebbe alcun nesso coi diritti della Palestina. Ricordiamo che l’Italia ha accolto sta accogliendo studenti palestinesi nelle università, e che quegli stessi studenti hanno ringraziato il nostro Paese per quello che sta facendo. Tra la politica e queste mobilitazioni c’è uno shift sempre maggiore che va a compromettere i nostri buoni rapporti con il popolo palestinese che, ricordiamo per la millesima volta, non è Hamas.

2. Possiamo interpretare con fiducia il “piano di pace” tra Netanyahu e Trump per Gaza?

Il piano di Trump per il Medio Oriente, in generale, è un piano di realpolitik, un piano di pace piuttosto generico su alcuni punti. Ma è comunque un piano fattibile, un piano che ha un suo senso a mio avviso. Sicuramente è una scatola che poi va riempita con azioni concrete: cioè Hamas dovrebbe accettarlo in primo luogo, altrimenti facciamo i conti senza l’oste; decidere davvero di deporre le armi e, dall’altra parte, Israele dovrebbe ritirarsi gradualmente dalla Striscia di Gaza. Questi sono chiaramente i punti fondamentali.

È chiaro che, se sulla carta l’accordo può essere definito comunque una proposta lineare di massima e un inizio di tregua, d’altra parte va anche detto che di proposte, questa volta accettate da ambo le parti e non solo da Netanyahu o dai precedenti leader israeliani, ce ne sono state: come nel ’93 con gli accordi di Oslo, con i vertici, con Oslo II, con il vertice di Annapolis, ecc. Ottime sulla carta, ma poi non hanno trovato riscontro nella realtà dei fatti. Dobbiamo purtroppo tener conto anche di questo e sperare che, questa volta, Hamas accetti queste condizioni e che tali condizioni vengano rispettate da entrambe le parti. Da qui si può iniziare un cammino tortuoso, ma almeno un cammino.

Rispetto agli altri tentativi, anche da parte americana, questo accordo ha un valore maggiore. Questo piano di pace ha un valore superiore perché è stato approvato da molti paesi arabi, anche quelli nevralgici in questa situazione, come l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, Turchia, Egitto etc. e dalla stessa Autorità Nazionale Palestinese. Ha quindi ricevuto un altissimo consenso internazionale e questo, sicuramente, gioca a suo favore.

3. È realmente possibile che Hamas accetti le condizioni imposte da Trump?

Sul fatto che Hamas accetti le condizioni imposte da Trump, la risposta è difficile. Sicuramente sarà fondamentale, da questo punto di vista, la postura del Qatar, che ha una forte influenza su Hamas, anche economica. Chiaramente, il Qatar vuole partecipare anche a una possibile ricostruzione con Israele, come previsto nel piano americano. E quindi, in questi momenti in cui stiamo parlando e le trattative sono in corso, ci auguriamo tutti che Hamas accetti e mantenga poi, chiaramente, le proprie promesse, così come, ripeto, dovrebbe fare Israele.

4. Perché non dobbiamo perdere di vista il diritto all’infanzia come missione globale?

Sì.L’infanzia negata genera i conflitti del futuro.

Un bambino che imbraccia un fucile è pur sempre un bambino. È un bambino che però guarda con l’occhietto l’orsacchiotto per terra perché lo vorrebbe raccogliere, eppure lo obbligano a imbracciare quel fucile.

Dovremmo cercare di salvare quell’infanzia, per la sicurezza del futuro, ma soprattutto per salvare i bambini, per restituire quell’infanzia che probabilmente non avranno più.

5. Il bambino che imbraccia il kalashnikov, cosa ci suggerisce questa immagine?

L’immagine di un bambino di 6 anni con un kalashnikov vuole fare passare il messaggio che: “A 6 anni già sono terroristi”. Vengono de-bambinizzati, deumanizzati. La comunicazione è un’arma potentissima, anche solo un’immagine può diventare simbolo di qualcosa di enorme. Quelle immagini sono diventate iconiche. Non è l’immagine di un bambino, è un messaggio che viene dato. La comunicazione di una singola immagine rimane iconica e nelle coscienze crea un credo, una visione.

6. Che fine ha fatto il diritto internazionale?

Il conflitto che c’è a Gaza è diventato il cimitero del diritto internazionale. Ci sono continue dichiarazioni dell’ONU, continue prese di posizione dell’Unione europea che non vengono ascoltate. L’Ue continua a prendere delle posizioni parziali. Ma perché non ci sono azioni concrete? Perché tutti gli stati europei da anni esportano tecnologie complesse e all’avanguardia da Israele. Quindi il problema non è quello che noi europei diamo a Israele, ma quello che non possiamo più prendere da loro.

Quello che noi importiamo da Israele non possiamo importarlo da nessun altro Paese. Lo fa la Francia, la Danimarca, la Finlandia e lo fa anche l’Italia. È una questione di real politik.

7. L’Europa quindi tergiversa, e gli Stati Uniti invece?

Gli Stati Uniti hanno la nostra stessa dipendenza da Israele, ma in più sono profondamente legati a Israele. Finché Trump continuerà a sostenere Israele e Netanyahu, l’Ue e il diritto internazionale hanno un peso relativo. Quando ci sono state le missioni di Bush in Afghanistan e Iraq, l’allora presidente ha fatto un’azione unilaterale. Ormai è diventata una politica unilaterale a mano americana.

8. Fin dove si spinge il piano di Netanyahu?

Fin dove gli Stati Uniti lo appoggeranno. In questo momento, poi, Netanyahu ha anche problemi interni come il processo per corruzione su cui il presidente Herzog potrebbe concedere la grazia e una crescente opposizione difronte all’azione che sta portando avanti a Gaza. Sono questi i fattori che potrebbero frenarlo.

9. Una chance può arrivare dalla Lega Araba?

I paesi della Lega Araba si sono riuniti poco tempo fa hanno detto “cerchiamo una pace”, ma non hanno fatto nulla, perché non vogliono accogliere i palestinesi laddove dovesse rendersi necessario. In ogni caso va detto la recente proposta di pace di Trump è stata accolta con favore da numerosi Paesi arabi tra cui Arabia Saudita (molto importante sia per Israele che per Trump), Emirati Arabi Uniti, Turchia, Egitto e molti altri e questo, ribadisco è un segnale importantissimo.

10. Dove andranno fisicamente i palestinesi?

Secondo il piano Trump resteranno a Gaza. È vero che in passato ci sono state voci diverse, come ad esempio un presunto accordo con la Libia per “accogliere” circa un milione di palestinesi. Tuttavia nel piano americano è detto espressamente che resteranno a Gaza.

Tuttavia se davvero volessimo parlare di questa opzione al momento remota, se dovessero davvero andare in Libia (ipotesi al momento non verificata) il rischio è che potrebbero essere bersaglio di organizzazioni criminali nel traffico dei migranti e portarli altrove, probabilmente nella rotta del Mediterraneo centrale e nella rotta balcanica. Si è parlato anche con la Tunisia per prendere i vertici di Hamas rimasti. La situazione rischia di diventare veramente esplosiva dal punto non tanto umanitario, ma geopolitico. Questa è la questione delle questioni.

11. Come si può arrivare a una tregua?

La tregua proposta da Trump, seppure molto parziale e con dei punti ancora poco chiari, è stata accettata da Netanyahu. Ora la palla è passata ad Hamas (e all’Egitto e Qatar che stanno negoziando con Hamas per l’accettazione). Se non dovesse accettare torneremmo al punto di partenza con la prosecuzione delle “attività” israeliane nella Striscia e notevoli rischi per la Cisgiordania.

12.  E se guardassimo più dall’interno, alla complessità della popolazione palestinese, cosa sfugge al quadro mediatico?

Non dobbiamo dimenticare che la popolazione palestinese è ormai da anni sotto un fuoco incrociato: il fuoco di Israele e il fuoco di Hamas stessa. Perché Hamas obiettivamente usa i civili come scudi umani, essendo un’organizzazione terroristica non si dà scrupolo di utilizzare i civili.

I palestinesi si identificano nella tribù di appartenenza, anche per quanto riguarda la distribuzione degli aiuti c’è stata una lotta tra le varie tribù per accaparrarsi quei pochi aiuti umanitari che riuscivano ad arrivare.

Da lì ulteriori violenze interne, oltre a quelle esterne. A maggior ragione, vista la situazione di estrema emergenza che c’è a Gaza, le tribù si sono anche rafforzate e si sono anche contrapposte ad Hamas, perché lo vedevano come la causa del loro male. Si è creata una lotta tra tribù che si è sommata alla guerra tra Israele e Hamas. Quindi l’elemento tribale è fondamentale per capire quello che accade a Gaza.

13. Mediaticamente le posizioni a favore di Israele o della Palestina sono polarizzate a mo’ di tifo da stadio. Cosa innesca questo meccanismo?

Gaza è stata presa come causa dove apporre la propria firma. I partiti di tutta Europa hanno un casus belli su cui scontrarsi e Gaza sicuramente è stata assurta quale campo in cui scontrarsi. Purtroppo c’è bisogno di questo per avere audience e riconoscibilità politica e si tralasciano altri temi.

Il dibattito è sceso su un livello assolutamente politicizzato, acritico, avulso da quella che deve essere una conoscenza storica necessaria dei fatti e dell’attualità. Ormai si urla per slogan e Gaza è stata assurta a questo. Mediamente manca una narrazione critica di quello che accade, una comprensione necessaria perché ognuno abbia un giudizio.

14. Il punto sul riconoscimento dello Stato di Palestina

Durante l’Assemblea generale dell’ONU molti Stati europei tra cui la Francia, la Spagna, ma anche non europei come il Canada e l’Australia, hanno riconosciuto formalmente lo Stato di Palestina.

L’Italia ha assunto una posizione diversa. Il Governo italiano nel corso dell’Assemblea ha annunciato che il riconoscimento della Palestina ci sarà, è giusto che ci sia. È concorde nella soluzione dei due popoli e dei due stati, ma questo deve essere subordinato a due condizioni: il rilascio degli ostaggi e l’esclusione di Hamas da qualunque ruolo all’interno della Palestina e nello specifico di Gaza. Concordo nella posizione italiana, perché riconoscere la Palestina oggi vuol dire riconoscere lo status quo attuale, in cui Gaza è ancora governata da Hamas e in Cisgiordania aumentano gli insediamenti israeliani davanti a un fragilissimo governo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ci sono degli step ben precisi affinché il riconoscimento della Palestina non sia solo un atto formale, ma qualcosa di più concreto.

15. Quali sono le condizioni perché il riconoscimento dello Stato di Palestina abbia un impatto significativo sulla ricostruzione di una pace stabile?

Quattro punti fondamentali:

  • che Hamas non governi più in alcun modo la Striscia di Gaza
  • che vengano restituiti gli ostaggi
  • che le cancellerie internazionali e gli Stati arabi che hanno un ruolo importante in questa faccenda spingano assolutamente per un tregua
  • che gradualmente Israele si ritiri dalla Striscia

Secondo me, il riconoscimento dello Stato di Palestina adesso, seppur simbolico, non crea nessuna pressione su Netanyahu. In questo momento questo riconoscimento così rapido, soprattutto da parte delle cancellerie europee, risulterebbe come una sorta di escamotage per calmare un’opinione pubblica sempre imbarazzata dall’atteggiamento dei governi europei.

Leggi anche: Israele-Hamas, 5 libri per educare alla pace e capire il conflitto

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Silvia Buffo
Silvia Buffo
Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.

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