Crepet sull’omicidio di Barbara Capovani: “Psichiatri lasciati soli. Senza ascolto non c’è cura”

L’omicidio di Barbara Capovani, la psichiatria uccisa a Pisa da un suo paziente si poteva evitare? Cosa si può fare per far si che episodi del genere non si ripetano?

Michela Sacchetti
Michela Sacchetti
Intuitiva, con un occhio attento alla realtà e alla sua evoluzione, attraverso una lente di irrinunciabile positività. Vede sempre nella difficoltà un’occasione preziosa per migliorarsi da cogliere con entusiasmo.
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L’aggressione letale a Barbara Capovani, psichiatra uccisa a Pisa da un suo paziente, ha lasciato gli operatori della salute mentale nello sgomento, nell’abbandono da parte delle istituzioni e in pochi a confrontarsi con la sofferenza, esposti a ogni tipo di aggressione. Questo è il parere di Antonello D’Elia, Presidente di Psichiatria Democratica, il quale ha sollecitato non a riaprire i manicomi, come se recludere e isolare fosse la soluzione, ma ad aprire degli spazi di riflessione per prendere iniziative che possano prevenire episodi come quello di Pisa.

Per Paolo Crepet invece è importante l’ascolto e non si può ridurre il compito del terapeuta al colloquio di 15 minuti: “Serve una rete di aiuto. A partire dalla famiglia”, suggerisce lo psichiatra.

Omicidio Capovani, Crepet: “Riconoscere i segnali d’allarme in adolescenza”

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Paolo Crepet ritiene che gli episodi come quello accaduto a Pisa non siano nati in una giornata e che il compito dello psichiatra sia proprio quello di cercare quanto meno di prevenirli. Specifica, come riportato in un’intervista per La Stampa:

Neanche il Mago di Oz potrebbe dire con certezza che un adolescente bullo sarà un adulto assassino. Ma ciascuno di noi è stato adolescente. Chi commette una violenza lo è stato.

E forse ha vissuto quella fase così inquietante della vita senza una rete di aiuto, come quella familiare, che non ha potuto o saputo cogliere i segnali d’allarme di una psicosi che di certo non si è manifestata all’improvviso.

Paolo Crepet: “L’ascolto e la chimica sono complementari”

Crepet è convinto che occorre puntare sull’ascolto e pensa a una sorta di day hospital psichiatrico:

Non possiamo pensare che dalla chiusura dei manicomi a oggi, la strada per la cura della mente – e dell’anima – sia la lobotomizzazione del paziente con gli psicofarmaci. Attenzione, non sono contro la chimica. So bene che in alcuni casi è necessaria. Ma non da sola. L’ascolto e la chimica sono complementari.

Ma se i colloqui con un terapeuta durano un quarto d’ora, è chiaro che in quel tempo non ho possibilità di approfondire, di chiedere al paziente della sua vita. Quella che è una risorsa – che poi si trasforma in terapia – viene a mancare.

Dovremmo pensare a day hospital psichiatrici, che costano meno dei reparti ospedalieri, ma che sono presidi di riferimento costanti per le famiglie che vogliono portare un figlio quando esce da scuola o un parente adulto.

Perché una regione non dissemina il proprio territorio di centri come questo? In un quarto d’ora, un terapeuta può quasi soltanto prescrivere psicofarmaci e passare al paziente successivo.

La verità è che da quarant’anni a questa parte la psichiatria è stata lasciata sola a occuparsi dei pazienti. Perché c’è un interesse affinché il medico di base o la struttura sanitaria di igiene mentale consumino psicofarmaci.

Crepet ritiene, inoltre, che la chiusura dei manicomi sia stata una conquista e che la psichiatria debba aiutare le persone a farle convivere con il dolore, non potendolo cancellare: “Non esiste uno psicofarmaco che cancelli la memoria dei lager. Bisogna comprendere che il dolore, la sofferenza mentale esistono. La psichiatria deve aiutare a conviverci. Da psichiatra io devo rispettare la creatività, il genio e l’unicità del mio paziente ma anche tutelare il microcosmo che lo circonda. Avrei voluto essere capace di aiutare prima quell’uomo che ha ucciso a bastonate la dottoressa. Perché parte di quel delitto è inscritto nella sua enorme solitudine”.

La proposta di Antonello D’Elia

Per Antonello D’Elia, invece, una delle strade possibili da intraprendere potrebbe essere l’abolizione del vizio totale o parziale di mente, ossia della ridotta o assente capacità di intendere e di volere, come stabilita dagli articoli 88 e 89 del Codice Penale. Riconoscere il vizio mentale fa sì che una persona che abbia commesso un reato non sia ritenuta responsabile del suo operato e quindi non può essere soggetto a misure di sicurezza a causa della sua pericolosità sociale. Queste misure, che in passato erano la strada per l’ingresso negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, un mix tra manicomi e carceri, chiusi con la legge 81/2015, oggi permettono di accedere al sistema delle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza).

Questo sistema, sottolinea D’Elia, ha fatto si che una platea di delinquenti comuni, violenti per carattere e antisocialità e abusatori comuni di sostanze affollassero il sistema psichiatrico e quello delle Rems. Il personale sanitario della salute mentale si è trovato così in difficoltà, in carenza di personale e di mezzi adeguati a fronteggiare la situazione. Non tutti coloro che commettono reati sono folli e inconsapevoli, e spesse volte questi soggetti sfuggono alle terapie dedicate ai pazienti psichiatrici. Per alcuni, pur essendo disturbati, non esistono diagnosi psichiatriche che li rendono soggetti alle cure come sono i malati. Per questi, se ritenuti colpevoli, l’unica strada è il carcere, conclude il Presidente di Psichiatria Democratica.

Leggi anche: Chi era la psichiatra Barbara Capovani e perché è stata uccisa dal suo ex paziente

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