All’82ª Mostra del Cinema di Venezia, la sala si alza in piedi per lui. Werner Herzog, 81 anni, riceve il Leone d’Oro alla carriera dalle mani di Francis Ford Coppola.
È un momento carico di emozione: lo sguardo lucido, qualche lacrima mentre scorrono sullo schermo le immagini dei suoi film e una frase che sintetizza un’intera filosofia: «Sono un buon soldato del cinema».
Coppola, che di cinema se ne intende, ha scherzato: «Mi mangio la scarpa se ce n’è un altro come lui». Poi, più serio, ha aggiunto che Herzog ha inventato categorie che ancora non hanno un nome, talmente vasto e unico è il suo contributo alla settima arte.
Dalle valli bavaresi al mito del cinema
Werner Herzog nasce nel 1942 in una valle sperduta della Baviera. La sua infanzia è segnata dall’isolamento: fino a undici anni non vede nemmeno un film. È un destino paradossale per chi diventerà uno dei registi più visionari del Novecento.
La sua carriera comincia negli anni ’60 e presto il suo nome si lega a una nuova stagione del cinema tedesco. A soli 19 anni realizza il suo primo cortometraggio, Herakles (1962), in cui già affiora la sua attrazione per la sfida fisica e simbolica.
Poco dopo fonda la Werner Herzog Filmproduktion, la sua casa di produzione indipendente, grazie alla quale potrà dar vita a film considerati impossibili da girare e mantenere sempre una libertà creativa radicale.
Film come Aguirre, furore di Dio (1972), Nosferatu (1979) e Fitzcarraldo (1982) diventano icone di un modo di fare cinema che sfida natura, logistica e persino il buon senso. Chi non ricorda il piroscafo trascinato su per una montagna amazzonica? Una scena reale, girata davvero, che racconta la sua idea di cinema come resistenza fisica e mentale.
Negli anni, oltre a dirigere, Herzog è diventato anche un volto familiare: ha recitato in film internazionali come Jack Reacher (2012) accanto a Tom Cruise, nella serie The Mandalorian di Star Wars e persino in un cameo ne I Simpson, consacrandosi come icona pop.
La poesia come resistenza
Herzog ama definirsi un esploratore dell’anima. È un’immagine che sembra uscita da uno dei suoi film: non la semplice testimonianza, ma la tensione costante verso ciò che è più grande, verso l’orizzonte che sfugge.
Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, lo ha descritto come l’erede del romanticismo tedesco. In effetti, i suoi film sembrano paesaggi interiori: uomini che inseguono miraggi impossibili, animali che diventano specchi dell’anima umana, catastrofi naturali trasformate in poesia visiva.
Per Herzog, documentario e finzione non sono due generi separati, ma strumenti diversi per raccontare la stessa verità interiore: «I fatti non sono sempre la verità», ama ripetere.
Tra catastrofi e rivelazioni
Non è un caso che Herzog abbia filmato vulcani, ghiacciai, deserti e abissi. Il suo cinema nasce sul confine estremo, là dove l’uomo sembra troppo fragile per reggere l’impatto con la natura. Eppure è proprio in quell’eccesso, in quella sfida, che svela la bellezza.
I suoi protagonisti – Aguirre, Fitzcarraldo, ma anche i visionari dei documentari più recenti come Grizzly Man – sono figure che cercano l’impossibile.
Spesso falliscono, ma proprio nella loro caduta si cela una rivelazione: l’essere umano non domina la natura, ne è parte, e davanti alla sua grandezza può solo chinare lo sguardo. È un cinema che non consola, ma che apre gli occhi.
Oltre il cinema, una vita instancabile
A chi pensasse che l’omaggio veneziano fosse un punto d’arrivo, Herzog risponde con i suoi progetti. Presenta al Lido Ghost Elephants, ma contemporaneamente gira in Irlanda, prepara un film d’animazione dal suo romanzo The Twilight World e presterà la voce al prossimo film di Bong Joon-ho.
Non c’è stanchezza nei suoi gesti, solo la stessa urgenza che lo ha guidato sin dall’inizio. Nel tempo ha fondato la Rogue Film School, alternativa ribelle alle scuole tradizionali.
Ha esposto installazioni al Whitney Museum e scritto libri di narrativa e poesia. Per lui il cinema non è mai bastato, ma resta sempre il centro di gravità della sua avventura.
Herzog e Coppola: un incontro di giganti

Il passaggio del Leone d’Oro dalle mani di Coppola a quelle di Herzog ha il sapore dell’epopea. Il primo, con Apocalypse Now, ha riscritto l’epica americana. Il secondo ha trasformato il cinema in un atto di sfida e contemplazione.
E non è un caso che proprio Aguirre abbia ispirato l’opera più celebre di Coppola. Due destini intrecciati, due uomini che hanno spinto il cinema al limite, per ricordarci che la settima arte non è solo intrattenimento, ma esperienza di vita totale.
Un Leone che guarda avanti
Il Leone d’Oro a Werner Herzog non è un premio alla memoria, ma un invito al futuro. A più di ottant’anni, il regista tedesco continua a camminare, esplorare, rischiare. «Il mondo è straordinario, ma bisogna saperlo vedere», ha detto al Lido.
E forse è questo il senso più profondo del suo cinema: insegnarci a guardare ancora, a non smettere di cercare. Che sia davanti a un vulcano in eruzione, a un dipinto paleolitico o allo spazio siderale, Herzog ci ricorda che bisogna esplorare. Sempre.
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