Il Growth Hacking spiegato a mia nonna: tutto sull’ultima frontiera del marketing

Federica Tuseo
Federica Tuseohttp://ildigitale.it
Federica Tuseo. Classe 1994. Redattrice. Nomade digitale, alla costante ricerca di novità e sempre pronta a partire per girare il mondo, raccontando storie di vita vissuta. Una laurea triennale in Lingue e culture moderne ed una magistrale in Media, comunicazione digitale e giornalismo. Web, startup e innovazione sono i suoi orizzonti di ricerca.
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Il Growth Hacking è un processo di rapida sperimentazione attraverso una serie di canali di marketing per individuare i modi più efficaci per far crescere un business. Questa è una delle tantissime definizioni che si trovano in rete e il motivo di questa molteplicità si può ricondurre a due elementi. Primo, è un settore in cui non c’è niente di definitivo, la sua natura è proprio quella di una continua sperimentazione pratica su diversi aspetti legati a più discipline. Secondo è un ambito ancora poco conosciuto e studiato, per cui spesso chi scrive o parla dell’argomento non n’è padrone fino in fondo. Leggi anche: Cerchi un lavoro? Gli esperti in marketing più richiesti degli ingegneri Per fare chiarezza sul tema growth hacking, abbiamo deciso di rivolgerci a Luca Barboni, giovane growth hacker e Co-founder di 247X. Collabora sia con startup che con grandi aziende aiutandole a trasformare il loro approccio al digitale grazie al mindset del growth hacking. Si leggono online moltissime definizioni di Growth Hacking, alcune non ben chiare, altre eccessivamente tecniche e complesse. Ma se dovessi spiegare di che parliamo per esempio a mia nonna, che parole useresti? Allora, per spiegarlo a tua nonna inizierei senz’altro col dire che è un modo per costruire prodotti da vendere e poi di venderli, che non si basa sulle opinioni e sulla creatività, ma sull’attenzione ai dati e su più esperimenti. Sostanzialmente che differenza c’è fra il Growth Hacking e il marketing tradizionale? Diciamo che all’interno di un’azienda il marketing è un dipartimento specifico, invece il growth hacking usa anche il marketing però si rifà anche alla user experience, al visual design, allo studio dei dati – che poi di fatto anche se vendi comodini, ma li vendi online ci sarà sempre un codice. Quando tu hai quel tipo di padronanza, anche se non sei un vero e proprio programmatore, ti si aprono porte che altrimenti non avresti mai considerato come possibili strategie. Possiamo quindi dire che è un dipartimento trasversale che riunisce tutte queste discipline e cerca di organizzare il lavoro sulla finalità più importante, cioè far crescere l’azienda. Nel caso di una PMI sarebbe fatturare di più, nel caso di una corporate può voler dire aumentare il valore delle azioni di quell’azienda quotata sul mercato. In definitiva in base ai casi presi in considerazione quindi fare growth hacking può voler dire mille cose, aumentare gli iscritti alla nostra pagina, migliorare le confezioni del prodotto, e così via. Leggi anche: Basta con gli influencer. Il marketing oggi punta sugli ‘influser’ Se dovessi dirci cos’è il Growth Hacking usando 3 concetti fondamentali, quali sceglieresti?

  1. Multidisciplinare – per i motivi spiegati in precedenza. Quindi una persona che viene sfornata da un master in marketing, così come un programmatore, un venditore, un designer, gli mancano dei pezzi per chiudere il cerchio ed avere una visione completa. Infatti proprio nell’ambito specifico del Growth Hacking, c’è un concetto importante che è quello delle competenze a T, che si riferisce all’importanza in questo ambito di avere non solo conoscenze specifiche, ma soprattutto trasversali.
  2. Sperimentare – fare esperimenti, sempre. Non fare grandi piani a lungo termine, accordi e promesse da mantenere perché in realtà se fosse così facile interpretare i mercati con la palla di vetro saremmo tutti ricchi, invece è molto molto complesso. Quindi facendo una serie di esperimenti, su ogni aspetto del business, a breve termine, mantieni la flessibilità di poter provare e sbagliare, ma senza provocare una catastrofe. Imparare dal fallimento e aggiustare il tiro subito.
  3. Fattualità – fare esperimenti genera dati, quindi se ti dicono di gestire 100mila euro in un media plan di 6 mesi, tu testi tutto quello che sarebbe la tua visione di campagna finale, in tante piccole cose da testare e grazie ai dati capisci al volo se i rubinetti vanno chiusi perché quella cosa non funziona. Tutto ciò non lo fai in base alla creatività, all’opinione del momento o a ciò che dice o meno il CEO o il top manager. Il dibattito viene vinto dal dato.

Parlando di fallimento, vorrei entrare nel vivo del tuo intervento fatto nell’ultimo evento Campus Party Italia, tenutosi a Milano. Ho letto che l’aspetto più interessante di cui hai parlato riguarda i motivi per i quali il Growth Hacking può fallire. Potrebbe essere legato all’incapacità per un’azienda di passare dalla teoria alla pratica? Guarda, sicuramente nel caso di un’azienda, come dicevo prima, quando si parla di growth hacking non si tratta semplicemente di un singolo dipartimento o strategia da migliorare. Il growth hacking non è un’alternativa a Facebook Ads, Google Ads e alla SEO per intenderci. Il growth hacking è una cosa che sta molto più sopra, è il processo con il quale tu organizzi il lavoro che interessa il settore marketing. Una metodologia e non un canale. Quindi un elemento fondamentale che distingue un’azienda che passa da non fare growth hacking a farlo è sicuramente la cultura che sta alla base. Solo quando c’è la cultura si può mettere in atto il processo giusto.

Luca Barboni, Sabrina Taddei all’Impact Hub di Roma e il libro “Growth Hacker Marketing”.
Per uno studente o un professionista che vuole informarsi sull’argomento, consiglieresti il tuo libro “Growth Hacking. Fai crescere la tua impresa online” in collaborazione con Federico Simonetti per avere un punto di riferimento da cui partire? Sì, l’idea da cui è nato il libro è quella di creare un po’ un parallelo del libro di Ryan Holiday, “Growth Hacker Marketing”, il primo libro al mondo sul tema del growth hacking. Quindi partendo dal riferimento americano, ci abbiamo aggiunto alcuni spunti pratici. Escludendo il primo capitolo più teorico, gli altri sono tutti fatti come se dovessi partire da un’idea per farla crescere, passando poi per la dimensione aziendale e organizzativa. È un libro che può essere adatto sia ad un entry level, sia un buon manuale per chi queste realtà le vede tutti i giorni e vuole fare un reality check per scoprire nuovi modi sani di organizzare il lavoro.   di Federica Tuseo

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