Home Salute Psicologia Suicidi tra studenti universitari: perché lo studio può diventare un inferno

Suicidi tra studenti universitari: perché lo studio può diventare un inferno

Paura di deludere, rischio di fallire, inadeguatezza. Sono diversi i fattori che possono indurre un giovane studente al suicidio. Intervista alla Dottoressa Tonia Samela, psicologa clinica.

In questi ultimi mesi, per ovvie ragioni, il coronavirus è stato il tema principale della nostra quotidianità, per le morti e la sofferenza provocata. Ma non di solo Covid muore l’uomo, verrebbe da dire. Seppur latente, c’è un fenomeno che purtroppo sta dilagando tra i giovani: i suicidi per motivi di studio.

Dati allarmanti

Secondo i dati Istat sono circa 4 mila i suicidi in Italia ogni anno: il 5% riguarda giovani sotto i 24 anni. Anche recentemente non pochi, tra liceali e studenti universitari, hanno deciso di togliersi la vita. La fascia di età più esposta a questo fenomeno sembrerebbe essere quella dai venti ai trentanni, i giovani adulti. La dottoressa Tonia Samela, Psicologa Clinica e PhD Candidate in Psicopatologia del comportamento, ricercatrice in un IRCCS, nonché collaboratrice de Il Digitale.it ci riferisce che i dati più precisi parlano del range che va dai 16 ai 24 anni (Abdollahi, Carlbring, 2016) ma è possibile allargare un po’ la forbice, ad esempio i dati della World Health Organization (del 2012) parlano di persone dai 15 ai 29 anni. Questo a prescindere dall’occupazione. Leggi anche: Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio: salvare una vita è possibile

Perché i giovani si tolgono la vita?

Alcuni studi rivelano che i suicidi per motivi di studio tra i giovani si verifichino nella popolazione degli universitari, ritenuta probabilmente più fragile, con livelli di depressione e ansia molto più alti rispetto alla popolazione generale. Sembrerebbe proprio che lo studio sia uno dei motivi scatenanti stati depressivi, così come l’essere iscritti all’Università. Dottoressa Samela, perché lo studio può diventare un incubo? Paura di fallire o di deludere?

La scienza non può interrogare i morti, per cui la maggior parte degli studi si è concentrata sul rischio di suicidio e sull’ideazione suicidaria degli studenti universitari per studiare cosa sembra portare le persone a mettere fine alla loro vita. Secondo alcuni studiosi sembrerebbe che il perfezionismo maladattivo, ovvero la tendenza a pensare che una azione non sia mai meritevole di apprezzamento, la tendenza a non terminare i progetti perché non ritenuti mai adeguati e il senso di incapacità nell’operare nell’ambiente in maniera congrua alle proprie aspettative, ricoprirebbe un ruolo abbastanza importante. È come se alcune persone non riuscissero a trarre soddisfazione da nessuna impresa portata a termine.

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Il perfezionismo uccide

Sempre la Dottoressa Samela ci spiega come per alcune persone sia frustrante avere la sensazione di non riuscire a trarre soddisfazione da nessuna impresa portata a termine:

Niente è mai come vorrebbero, manca sempre qualcosa per raggiungere la perfezione sperata (Stoeber, Janssen, 2018). Per cui, ad esempio, un esame portato a termine non viene davvero archiviato, magari viene ripetuto più volte, oppure non viene mai affrontato per paura di non essere mai abbastanza preparati, con l’inevitabile conseguenza di allungare i tempi di permanenza all’Università e di aumentare il senso di fallimento e incapacità.

Il disagio nasce all’Università o esiste da prima e magari viene acuito dagli impegni universitari?

È estremamente difficile definire una volta e per tutti dei rapporti lineari di causa-effetto nella definizione di fenomeni come questo. È un po’ come chiedere se è nato prima l’uovo o la gallina. Dipende. Sicuramente gli impegni accademici, ovvero la richiesta che questi impegni comportano, il diventare adulti, il vivere magari da soli, il dover gestire la propria vita accademica in autonomia e il non avere più un “gruppo classe” peggiora le cose. Non è detto poi che solo chi arriva a gesti estremi soffra, anzi. Gli anni dell’Università possono essere dolorosi per molti.

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Il ruolo della famiglia

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Tonia Samela, Psicologa clinica e esperta comportamentale
La paura di deludere i propri cari, il rischio di fallire spesso sono figli di aspettative troppo alte o lontane dal giovane studente, che spesso appartengono alla famiglia di origine. Le prestazioni accademiche, però, sono associate a diversi fattori: dal tempo impiegato ad andare e tornare da scuola, dal livello di motivazione degli insegnanti o il livello di educazione raggiunto dai genitori. La capacità di risolvere i problemi, l’adattamento nei confronti dei cambiamenti (capacità di coping – Lazarus, Folkman, 1984), e l’intelligenza emotiva giocano un ruolo importante nel determinare il successo scolastico e accademico. E qual è, invece, il ruolo giocato dalla famiglia?

Per quanto riguarda il coinvolgimento dei genitori e i risultati accademici, gli studi hanno dimostrato fino ad oggi che più i genitori sono presenti in questo senso, maggiore è il profitto accademico. Ciò che non ci dicono questi studi è come il genitore deve essere presente. Esiste un confine molto labile tra presenza e pressione, alle volte. Il genitore presente permette al bambino di sviluppare molto meglio e molto più velocemente apprendimenti. Tuttavia, spesso il rendimento scolastico o accademico diventa un pretesto per mantenere un certo controllo sulla vita del figlio, per realizzare se stessi tramite il percorso del figlio e per valutare il valore personale del figlio. Questi tre atteggiamenti sono pericolosi. Il ragazzo o la ragazza che compiono scelte mirate unicamente alla soddisfazione dei genitori tendono a esperire livelli più alti di paura del fallimento e carico emotivo negativo. Questo è dovuto principalmente perché sembra loro di essere mossi da qualcosa di esterno alla loro motivazione. Tuttavia, spesso il rendimento scolastico o accademico diventa un pretesto per mantenere un certo controllo sulla vita del figlio, per realizzare se stessi tramite il percorso del figlio e per valutare il valore personale del figlio. Questi tre atteggiamenti sono pericolosi. Il ragazzo o la ragazza che compiono scelte mirate unicamente alla soddisfazione dei genitori tendono a esperire livelli più alti di paura del fallimento e carico emotivo negativo. Se gli esseri umani non si sentono protagonisti della loro vita è più probabile che sperimentino emozioni negative.

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Non esistono colpe

La nostra esperta ci spiega che non esistono colpe vere e proprie nel suicidio. Sta a alla scienza spiegare i fatti senza giudicare i fenomeni e le cause:

Anche i pari, ad esempio, ricoprono un certo ruolo. Più si è soli più si è a rischio. Molto spesso non si tratta solo di successo o insuccesso accademico, bensì di come queste due cose vengono concettualizzate nella mente della vittima, cosa per la vittima significano. Secondo la concettualizzazione cognitivo-comportamentale, teoria abbastanza supportata empiricamente, la persona depressa, la persona che rischia il suicidio, sperimenta impotenza, incapacità di vedere prospettive future e incapacità di vedere in sé e/o negli altri alcunché di buono o desiderabile.

Quali sono i fattori che possono portare al rischio suicidio?

Sicuramente la triade cognitiva di Beck a cui accennavo prima: valutazione negativa di sé, del mondo e del futuro. L’umore basso per un periodo significativamente lungo o ricorrente, tanto da ridurre la capacità della persona di far fronte agli impegni della vita quotidiana. L’isolamento sociale. Il passato un po’ turbolento o, al contrario, ipercontrollato. La letteratura sul suicidio elenca moltissime cause. Quello che occorre tener presente però è sempre la valutazionecognitiva ed emotiva del soggetto di fronte a quello che gli succede. Le persone che si accorgono che qualcosa non va in un individuo che conoscono devono allertarsi senza perdere nemmeno un secondo di tempo.

Cosa devono fare la famiglia, gli amici o gli insegnati per affrontare il problema suicidi?

Ciò che bisogna fare, al livello delle istituzioni e al livello personale è non dimenticarsi che la sofferenza mentale esiste e si può curare. Occorre è una maggiore sensibilità rispetto al tema non solo del suicidio ,spesso infatti parlarne rappresenta un tabù che porta con sé convinzioni più o meno disfunzionali di colpa, vergogna o chissà cosa altro rispetto alla salute mentale in generale. Spesso si sottovaluta la sofferenza mentale. Altre volte si ha paura dell’iter o non ci si fida delle figure preposte alla cura di questi problemi.

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Manca la cultura della salute mentale

In Italia i servizi di salute mentale sono in gran parte erogati dai privati. Tonia Samela ci spiega che:

La salute mentale pubblica nonostante sovrumani sforzi, spesso non riesce a far fronte alla richiesta del territorio. Per molti anni ci si è dimenticati di chi soffre, ancora spesso ce ne dimentichiamo. Diciamo che non è ancora una priorità, nonostante dovrebbe esserlo. Molti studi hanno dimostrato che chi sta meglio lavora meglio, costa meno allo stato, vive più a lungo, fa più figli e tutto il resto. E poi perché non esistono sofferenze di serie A e di serie B. C’è chi si rompe un braccio, c’è chi è ansioso, depresso, chi spende troppi soldi, chi si lava troppo spesso le mani oltre il sopportabile limite. Perché per il primo pensiamo subito al gesso e per il secondo non pensiamo alla psicoterapia?

di Catiuscia Ceccarelli              

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