Home TV Spettacolo Il partito del selfie ha il suo perché

Il partito del selfie ha il suo perché

La comunicazione digitale vive nella politica la sua dimensione più dinamica; la politica gestisce il potere: niente è più sexy, niente è più veloce. Frequentando la Leopolda anche quest’anno, per la special edition del lancio di Italia Viva, non noto soltanto che il selfie è diventato uno strumento di partecipazione. Capisco che integra la comunicazione politica non meno di altri mezzi. Rileggo Pierre Lèvy: “Nell’intelligenza collettiva, l’individuo cerca una dimensione valorizzante di sé che permetta di saldare la propria soggettività ad un tutto in mutamento continuo”. Guardo i tanti militanti che a Firenze si fotografano con Matteo Renzi, Teresa Bellanova, Maria Elena Boschi e con il nuovo simbolo del partito nascente: fanno quel che fanno i simpatizzanti di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Dove c’è leadership, si focalizza un’attenzione che mira ad eternare il framing. C’è la voglia di fotografare l’attimo, di fissare la propria immagine più personale – il riconoscimento facciale è ormai un protocollo identificativo scientifico e legale – ancorando la propria identità a quella del leader e di rimando al suo partito, in un ampio crescendo.


Metterci la faccia. Condividere il proprio sorriso con un progetto. Sottoscrivere con un clin d’oeil, uno sguardo, un occhiolino, una idea o un appello. Una speranza o una protesta. Perché uno scatto dal telefonino non è mai fine a se stesso: è il primo passo di una concatenazione di atti comunicativi. Ed è perciò il contrario del messaggio narciso. Punta alla diffusione e si apre a una critica che può toccare il contenuto quanto il contesto; la tecnica quanto il suo portato semiotico. Perché mettere in gioco la propria fisicità, il proprio aspetto fisico, significa mettere sul piatto la parte più intima e scoperta di sé. Offrire la propria vulnerabilità al compromesso mediatico.


I veri narcisi oggi sono quelli che si sottraggono, ritenendo di mantenere la propria immagine nel sacrario privato e inviolabile della propria vetrinetta di casa. La partecipazione, la condivisione, l’engagement si manifesta offrendo il proprio viso al vento della rete, che scompiglia e spettina per antonomasia, senza troppi riguardi.


Nella macchina della comunicazione della politica, il selfie è il volano che spinge l’autore a farsi propalatore virale dell’immagine fotografata, e per dirla con De Saussure, sia del significato sia del significante. Nella Lega – dove la Bestia brevettata da Luca Morisi assegna un punteggio di merito specifico ad ogni tipologia di output digitale – il selfie viene non a caso al primo posto. E ad ogni manifestazione pubblica leghista c’è una organizzazione definita e precisa: i militanti sfilano uno alla volta in un corridoio che ha un punto di immissione, un centro focale e una via d’uscita.


Sarà senz’altro vero che in molti si limitano al selfie per godere dell’effetto alone del divismo, ma è parte della comunicazione leaderistica, immediata e ipermediatizzata di questo frangente storico. Se la videocrazia descritta da Giovanni Sartori è oggi diventata selfiecrazia, più orizzontale e trasversale, non è affatto un male. Il telefono che stringiamo in mano è diventato il telecomando per incidere sulla politica in tempo reale.

Aldo Torchiaro

Aldo Torchiaro, giornalista da quando si usavano le macchine da scrivere, si occupa oggi di innovazione digitale, nuovi media, e-democracy.
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