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Giornata Internazionale dell’Infermiere: “Non siamo eroi, ma professionisti”

infermiera covid
Silvia Giacomelli, infermiera nel reparto di emergenza Covid a Senigallia (An).

Oggi si celebra la Giornata Internazionale dell’Infermiere. Un ruolo elogiato da Papa Francesco che lo ritiene fondamentale. Sono gli infermieri, infatti, secondo il Pontefice:

coloro che hanno il fiuto per la malattia e che ne capiscono meglio il percorso.

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Perché si celebra la Giornata Internazionale dell’Infermiere

La Giornata Internazionale dell’Infermiere, stabilita negli Stati Uniti nel 1974, si celebra ogni anno nel giorno della nascita di Florence Nightingale. L’infermiera, nata appunto il 12 maggio 1820, ritenuta la fondatrice delle Scienze infermieristiche moderne. In un suo scritto, la Nightingale definì l’infermieristica:

Non semplicemente una tecnica, ma un sapere che coinvolge anima, mente e immaginazione.

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Per un infermiere, curare è la più bella delle arti

Chi sono gli infermieri sul campo che sempre, ma soprattutto in questa emergenza sanitaria, sono considerati eroi in corsia? Ce lo spiega Silvia Giacomelli, infermiera nel reparto di emergenza Covid di Senigallia, nelle Marche:

Noi siamo eroi, ma professionisti. Le attività che svolge un infermiere sono le stesse. Eravamo infermieri prima del Covid, lo siamo oggi e lo saremo anche dopo. L’infermieristica è una professione intellettuale, un’arte, la più bella tra le arti, come disse Florence Nightingale. È l’arte della cura.

Il Covid ha eliminato le relazioni con i pazienti, con le famiglie dei degenti e forse ha modificato i rapporti tra gli addetti ai lavori. Pensi che il coronavirus abbia spersonalizzato il vostro lavoro?

Assolutamente no. La relazione è tempo di cura e non può essere eliminata. Non c’è spersonalizzazione, c’è l’aver trovato nuovi canali comunicativi. Anche se filtrati da una mascherina o da un guanto, gli occhi non smettono di parlare, la nostra è una presenza incessante nonostante le regole necessarie da seguire quando si affrontano le malattie infettive. Anche se indossiamo tre paia di guanti, tenere la mano di un paziente non può mai essere un gesto di cura che non porta relazione.

Una sfida che unisce

Silvia Giacomelli, infermiera nel reparto di emergenza Covid a Senigallia (An).
Insieme, in corsia, con turni estenuanti, la paura del rischio ma anche la consapevolezza di fare la cosa giusta. Così prosegue l’intervista all’infermiera marchigiana:

Tra noi colleghi ci siamo uniti moltissimo, come non mai, è come se tutto ciò che ci ha travolto, che abbiamo affrontato lo abbiamo fatto insieme. Alcuni di noi lavoravano già insieme, altri invece hanno iniziato durante l’emergenza. Ma mai come ora ci siamo sentiti uniti ed orgogliosi di essere infermieri. Questo non vuol dire che sia stato semplice, non eravamo pronti ad affrontare tutto ciò, ma lo abbiamo fatto e verrà anche il tempo di riascoltarci, risentirci e analizzare tutte le emozioni e le paure vissute. Il rischio di stress post traumatico o burnout c’è, non si può negare.

Dall’inizio dell’emergenza Silvia hai deciso di allontanarti dalla tua famiglia per evitare di esporre i tuoi cari a possibili rischi, scegliendo di vivere in un appartamento vicino all’Ospedale, di cui paghi di tasca tua l’affitto. Come mai questa scelta?

Subito dopo due turni in Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza era evidente la gravità della situazione. Ho pensato che dovevo allontanarmi non perché avessi paura io di ammalarmi, ma per non infettare anche non volendo la mia famiglia. L’ho vissuto come un privilegio, poterlo fare. Tornerò a casa mia alla fine del mese.

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