E oggi si muore anche di social, su Tik Tok

C’è voluta la morte per asfissia di una bambina di dieci anni su Tik Tok perché intervenissero le autorità.

Giommaria Monti
Giommaria Monti
Giornalista e autore TV (Annozero, Il raggio verde, Omnibus, Unomattina, Cartabianca), ha scritto di politica, cronaca, mafia e terrorismo. A tempo perso di cantautori italiani. Conosce a memoria i testi di Pasquale Panella per Battisti. E se ne vanta.
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La vicenda è drammaticamente nota: una bambina di Palermo ha partecipato sul social dei ragazzini Tik Tok a un gioco pericolosamente folle, il Blackout challenge, una prova di soffocamento estremo.

Lo ha portato alle estreme conseguenze stringendosi al collo la cinta del padre nel bagno chiuso. Fino al coma irreversibile, la morte celebrale, l’espianto degli organi.

 “Voleva essere la regina, la star di TikTok e c’è riuscita”

“È finita proprio come voleva lei”. Sono queste le parole del padre ai cronisti. Naturalmente si è scatenata la consueta orda di iene da tastiere col dito puntato contro i genitori che consentono che una bambina di dieci anni abbia molti profili social su TikTok, Instagram, Faceboock e quant’altro. Contro i social diventati il male del secolo e via almanaccando altre rassicuranti amenità da “signora mia che tempi”.

Poi è intervenuto il garante della privacy è ha fatto quello che bisognava fare da almeno dieci anni: accertare l’identità e l’età di chi si iscrive sui social. Il garante ha disposto il blocco immediato per TikTok “dell’uso dei dati degli utenti per i quali non sia stata accertata con sicurezza l’età anagrafica”. Almeno fino al 15 febbraio, poi si vedrà. 

Leggi anche: Palermo, si lega una cintura al collo per una challenge di Tik Tok: muore a 10 anni

Quella proposta di registrarsi sui social con il documento d’identità che passò per censura

Quando più di un anno fa un deputato di Italia Viva, Luigi Marattin, propose di obbligare chiunque apra un profilo social a depositare un documento di identità, si gridò alla censura, alla limitazione della libertà di espressione, alla volontà di controllare i dati personali.

Tralasciamo l’ultima osservazione, visto che i nostri dati personali li rendiamo pubblici in ogni istante in cui facciamo una qualsiasi azione sulla rete (provate a cercare uno spazzolino da denti sul web e un minuto dopo vi si presenteranno pubblicità di colluttori, dentisti in Albania, colle miracolose per le dentiere), la libertà sarebbe quella di berciare insulti anonimi sulle pagine di chiunque? Di diffondere notizie false in grado di orientare (o disorientare) l’opinione pubblica su qualsiasi argomento, pandemia compresa?

La libertà sarebbe quella di proporre giochi pericolosi a bambini incapaci di capire i limiti?

Oggi per iscriversi a un social bastano pochi minuti: nome e cognome (qualunque, se scrivete Galileo Galilei o Giulio Cesare Augusto va benissimo, sarà il vostro nome e cognome), un indirizzo mail (che avete aperto in maniera altrettanto anonima), un numero di cellulare (basta un prefisso vero e  sette numeri a caso), cliccare Iscriviti, poi controllare la mail e confermare l’iscrizione. A quel punto siete socio del club.

Certo, sulla carta dovete avere almeno 13 anni (capirai), ma se ne avete dieci e scrivete la data giusta nessuno avrà nulla da dire. Vale per Facebook, ma anche per Instagram Twitter, TikTok e tutti gli altri social. Che non sono l’inferno, sono un luogo della modernità sociale, dell’incontro tra persone, idee, racconti lontani e tutto quello che chiunque li frequenti sa benissimo.

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Non solo Tik Tok, i social sono come la dinamite

Possono essere usati per aprire gallerie e collegare posti divisi da montagne. O per far saltare in aria stazioni e treni con decine di morti. Chiedere un documento per entrare in uno spazio anche virtuale dovrebbe essere il minimo: renderebbe quantomeno difficile la vita agli haters, gli odiatori di professione, ai diffusori di notizie false, ai calunniatori. E a chi fa circolare giochi pericolosi.

Non a caso sulla morte della bambina di Palermo c’è un’inchiesta per istigazione al suicidio. I gesti che facciamo ogni giorno sono ricondotti a noi, alla nostra responsabilità, alla nostra rintracciabilità.

Non esistono zone franche dove nell’anonimato chiunque può commettere reati. Nemmeno virtuali: anche l’odio in rete lo è, come ovviamente spingere una persona alle estreme conseguenze. Istigazione al suicido, appunto, o in altri casi quella che il codice penale definisce morte in conseguenza di altro reato.

La libertà non è un bene anonimo manipolabile: ha dei confini precisi e dei limiti

Ci sono due modi per definirla: tutto quello che la legge non consente è vietato. Oppure tutto quello che la legge non vieta è consentito. Nel mondo virtuale quei confini sembrano non esistere, è la terra di nessuno dove al massimo sei fermato da un algoritmo. Quasi sempre troppo tardi.

Chiedere a chi vuole entrare in quello spazio immenso che sono i social un documento non servirà probabilmente del tutto a evitare altre tragedie. Ma se anche soltanto consentisse di dare un’identità a chi semina odio, sarebbe già un risultato.

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