Adrian ci ricorda che siamo automi: ecco perché dà fastidio

Silvia Buffo
Silvia Buffo
Silvia Buffo, 1985, giornalista. Ha fondato e dirige Il Digitale. Formazione classica e filologica, un dottorato di ricerca in Letteratura italiana, sui legami tra scrittura e nuovi media. “La bellezza è promessa di felicità” è il suo motto, che ha delicatamente rubato a Stendhal.
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“Sei un qualunquista”, se lo è sentito dire più volte Adriano Celentano. Da parte di chi? Intellettuali, addetti ai lavori, la critica che conta. Ma c’è da chiedersi: si è davvero intellettuali se non si è in grado di vedere la bellezza anche nel qualunquismo? No. Se il tuo intellettualismo si nutre di morale e rigidi canoni, non vali nulla culturalmente, perché sei privo di empatia e amore verso l’altro. Ma pare che tutto ciò sia sempre scivolato addosso a Celentano, impermeabile alle critiche, troppo impegnato nel tipico slancio creativo di chi ha sempre da raccontare qualcosa, e sa bene come farlo. Un sapere che non si impara sui banchi di scuola e che riconosciamo come talento.

Mi dicevano “Sei un qualunquista”, ma io non conoscevo il significato di questa parola

Lo ha raccontato Celentano in più di qualche intervista, scendendo nei particolari dell’aneddoto: “Allora lo cercavo sul vocabolario ma poi me ne dimenticavo di nuovo”. Glielo avevano detto soprattutto quando scrisse ‘Svalutation‘, non si spiegavano perché quel ritornello così inflazionato potesse conquistare tutti, ignorando che ciò che conta è lo stile, oltre l’uso delle parole. E spesso a fare le canzoni più delle parole sono le persone. In quel suo breve racconto c’è l’essenza della sua personalità genuina, per certi versi svogliata e anarchica. E se vogliamo, il suo qualunquismo creativo e divagante è molto più funzionale e gradevole del monito intellettualistico di altri suoi colleghi, che spesso si traduce con ‘stucchevolezza’.

Qualunquista è bello, pensiamo a Battisti

Non dimenticherò mai il ricordo di Mogol durante il Festival della Filosofia nel 2008 a Roma. Ci ricordava come nel ’68 Battisti, nel narrare i sentimenti comuni, all’interno delle sue canzoni fosse così in contro-tendenza. E se da un lato avevamo uno splendido Battisti disimpegnato, dall’altro avevamo l’autore di ‘Contessa’, Paolo Pietrangeli, il più grande rappresentate in canzone delle lotte studentesce e di quell’onda rivoluzionaria ma fatta da ‘ragazzi con pullover e figli di borghesi’. Era nient’altro che questo il ’68 secondo Mogol. E ragionando su un circuito di ‘affinità elettive’, Mogol oltre ad essere amico- fratello di Battisti, lo è pure di Celentano, insieme hanno scritto canzoni, che si lasciano ricordare per quell’aura di sottile rivoluzione, mescolatata di vita e ricordi. Come L’Arcobaleno, un omaggio mistico spirituale dedicato proprio a Battisti, che più che un cantante per molti è una necessità interiore. E in questo mood di ‘beato qualunquismo’ ci collochiamo orgogliosamente Adrian, quello che ieri ha indignato mezzo paese con uno spettacolo accusato di … di … di … di…… una serie di connotazioni negative: trollata, autoreferenzialità, egotismo, click bait televisivo. “Francamente me ne infischio”, starà pensando questo con un accenno di sorriso fra i denti e lo sguardo scostumato.

Adrian, l’indefinibile

Lui che non ama giudizi, che non si è nemmeno mai definito un cantautore, un artista, né un cantante. Non ha mai amato definirsi. Lui che non è altro che lui, che come pochi basta a se stesso, e se è incalzato dalla domanda “Cosa sei”? Risponde “Se proprio devo definirmi sono uno che ha da comunicare qualcosa, più uno showman che un cantante” e di fatto è così. Fa un programma ogni dieci anni per bucare lo schermo e fare breccia con un messaggio chiaro, netto, deciso come un proiettile nella coscienza di ognuno. E può dar fastidio, la sua provocazione: l’apparente egocentrismo che invece rappresenta la forza del carattere, l’amore per se stessi e per la propria personalità in un mondo di alienazione e dimenticanza del sé più intimo. L’erotismo ostentato, con i capolavori di Milo Manara, nella cornice ormai rara di una grande storia d’amore, con sua moglie, che durerà tutta la vita, a dispetto del fast food sentimentale di oggi, in contrasto con l’appiattimento e lo sterile automatismo della società dei profitti e del cemento. Una dicotomia fra il vivace e lo smorto, una polarità che dà fastidio, perché ci fa scoprire, frame dopo frame, che siamo dalla parte sbagliata. Ed ancora il contesto quasi bucolico della Via Gluck, ultimo paradiso analogico, casa- ristoro dell’Orologiaio, custode di un tempo prezioso, che canta e si chiede, anche se l’inglese proprio non lo sa, “I want to know, vorrei sapere come fate a vivere imbottigliati come acciughe”?

La casa in via Gluck ricoperta solo di cielo

Dà fastidio ehh? Che ci venga detto, fra le righe di un eccentrico cartone, che siamo degli automi. E per di più con quella sfacciataggine beffarda tipica di Celentano. E mentre smartphone e cemento ci inghiottono, lui fa l’amore e fa ancora più rabbia se a disegnare sua moglie è Milo Manara: con la passione Adrian si ribella al desolante processo di alienazione, quello che Marcuse aveva ben raccontato nel suo ‘Uomo ad una dimensione’. E con Manara nella testa e nel cuore e un crocefisso in cucina, Adrian coltiva il suo mondo, lontano da tutti, in una casa in Via Gluck che oltre il soffitto ha solo il cielo. Cosa vuoi che siano, nella resa complessiva del suo ultimo programma, un ritmo non proprio perfetto e qualche difetto di forma per il giovane ottuagenario? Nulla… Splenditamente antipatico, ancora una volta lascia in eredità un messaggio da custodire: “Prendi una bici e salvati”!   di Silvia Buffo

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