Freeda: è questo il femminismo che vogliamo? 10 milioni di investimenti per la startup editoriale

Martina Mugnaini
Martina Mugnaini
Martina Mugnaini. Classe 1991. Nata e vissuta a Roma, ha un forte legame con le sue origini fiorentine. Laureata in Filologia Moderna alla Sapienza e giornalista, ama scrivere di tutto quello che riguarda l’arte, la letteratura, il teatro e la cultura digitale. Da anni lavora nel campo della comunicazione e del web writing interessandosi di tutto ciò che riguarda l'innovazione. Bibliofila e compratrice compulsiva di libri di qualunque genere, meglio se antichi: d'altronde “I libri sono riserve di grano da ammassare per l’inverno dello spirito” e se lo dice la Yourcenar sarà vero.
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Se nell’ultimo anno e mezzo vi è capitato di entrare su Facebook o su Instagram inevitabilmente vi sarete imbattuti in uno “strano fenomeno mediatico” difficile da identificare: è un web magazine ma non è un web magazine, è una rivista ma in realtà non lo è. Stiamo parlando di Freeda. Freeda è una startup editoriale italiana che ha visto una crescita esponenziale nell’ultimo anno e mezzo, raccogliendo attorno a sé 10 milioni di dollari di investimento: è nata nel settembre del 2016 e ad oggi conta più di 1.3 milioni di fan su Facebook e oltre 600mila follower su Instagram. La domanda che sorge spontanea è come ha fatto questa startup editoriale a prosperare mentre tutte le altre affondando? Capiamo cos’è esattamente Freeda e quali sono le sue inconfondibili caratteristiche.

1. Freeda, il Social femminista per donne forti e indipendenti

Il target di Freeda è molto preciso, ossia le donne tra i 18 e 34 anni, tutta quella fascia che spesso non viene raggiunta dai media tradizionali, o non in maniera efficace comunque. In questi sedici anni sono comprese due generazioni diverse – Millennials e Generazione Z – che esigono contenuti differenti da quelli tradizionali. “Freeda nasce da una forte istanza di cambiamento da parte di una nuova generazione di donne che va in una direzione di conquista di una maggiore libertà, sia nel perseguimento dei propri obiettivi che nell’espressione del proprio stile personale – dichiara l’editor in chief Daria Bernardoni dietro Freeda c’è una redazione di donne con tante cose da dire e tanta voglia di ascoltare, in un costante dialogo con le altre donne, alla ricerca di un sempre maggiore livello di consapevolezza e una sempre più profonda e autentica solidarietà femminile”. In Italia ci sono innumerevoli magazine, riviste e blog femminili e aprirsi un varco è piuttosto complicato, perciò Freeda ha deciso di andare controcorrente e di fare quello gli altri non fanno: far sentire le proprie lettrici libere di essere se stesse. Dice Daria Bernardoni:

Gran parte dell’editoria femminile si basa sulla costruzione di modelli irraggiungibili, generando insicurezze, invidia, gelosia e competizione. Noi, invece, vogliamo celebrare le donne mettendole tutte sullo stesso piano.

Questa la filosofia che ispira il team di Freeda ogni giorno, un team millennial e a netta prevalenza femminile. Il nome deriva dalla parola inglese che indica la libertà – freedom – e ricorda quello della pittrice Frida Kahlo, simbolo dell’autonomia e del riscatto femminile. Ma cosa differenzia esattamente Freeda dalle riviste tradizionali?

2. Il modello Freeda: addio al sito web, è solo social

L’unicità di questo magazine consiste nel fatto che Freeda non si appoggia ai social per veicolare i suoi contenuti, è social: infatti non esiste un vero e proprio sito web ma solo una landing page che rimanda alle pagine di Facebook e Instagram. L’idea è quella di creare dei contenuti progettati per essere fruiti direttamente su Facebook come instant articles, la modalità più usata da questa insolita rivista: la testata punta a ridurre al minimo i link esterni creando video di 3 o 4 minuti e grafiche riconoscibili. Il risultato di questa strategia è che i post di Freeda vengono visti da 24 milioni di utenti ogni mese, senza un sito web. I contenuti vogliono esaltare il #girlpower – questo uno degli hashtag lanciato dalla testata – storie di donne forti che ce l’hanno fatta, celebrazione dei difetti comuni a tutte di cui non bisogna vergognarsi, il tutto infarcito con il rimando costante ai miti della nostra generazione: Sailor Moon, Virginia Woolf e Beyonce, tanto per citarne alcuni. Scorrendo le pagine social sembra tutto così “femminista”, così a misura di donna: ma lo è davvero? Ci si può rispecchiare sul serio in messaggi del tipo “le mie cosce si toccano perché sono irresistibili”? Forse Freeda non è esattamente quello che appare.

3. Il femminismo della “quarta ondata”

Un magazine in cui si parla poco di smalti e tanto di potere femminile: non proprio. Anzi nei primi mesi di vita di Freeda parlava in pratica solo di quello. Scorrendo la bacheca ci si imbatte quasi esclusivamente in video che parlano di cosa c’è nella trousse di una donna o in grafiche che citano “qualunque cosa tu faccia nella vita non rinunciare ai tuoi sogni”. Quindi make-up, tatuaggi, cucina, vita di coppia e amicizia: ce n’è per tutti i gusti. Ma il femminismo è un’altra cosa. Se guardiamo questo fenomeno con un occhio critico ci accorgiamo che Rihanna e i trend di Hollywood trovano molto più spazio dei femminicidi o della violenza maschile, spesso nemmeno citati. Senza contare tutti quegli argomenti che non sono assolutamente pop come le politiche sul lavoro o il Jobs Act che da soli hanno intaccato la libertà femminile molto più di qualsiasi taglio di capelli di Emma Stone. Daria Bernardoni, in un’intervista afferma che: “Il femminismo di Freeda appartiene alla quarta ondata. Si tratta di un femminismo più aperto e inclusivo, che promuove la parità e non la guerra dei sessi. Non mancano donne leader e icone pop che hanno aderito a questo filone, da Sheryl Sandberg a Lena Dunham passando per Emma Watson ma, soprattutto, è importante segnalare che di questa quarta ondata fanno parte anche gli uomini, come Barack Obama o Justin Trudeau, a rimarcare che non si sostiene né l’inferiorità né la superiorità di un genere sull’altro, ma appunto la parità”. Non c’è nulla di male nel parlare di difetti fisici come la cellulite o dei problemi con il mascara che si scioglie durante la giornata: tutte queste cose fanno parte dell’universo quotidiano di ogni donna ma non c’è solo questo. Scorrendo i post di Freeda si ha l’impressione di trovarsi davanti alla versione digitale del vecchio e indimenticabile “Cioè”. I contenuti non sono però l’unico punto controverso.  

4. Ideali femministi? Perfetti per il marketing aziendale

Chi lavora nel mondo dei social sa benissimo che raggiungere un bacino come quello di Freeda solo con le proprie forze è un’impresa titanica, quasi impossibile da realizzare in così poco tempo. Primo: servono sponsorizzazioni, tante sponsorizzazioni e questo vuol dire soldi, soldi, soldi. Ma non solo: servono contenuti virali in grado di creare engagement e raggiungere più persone possibile. Questo significa una sola cosa: video e grafiche. Chiunque abbia dimestichezza nel settore sa che per confezionare prodotti grafici e video di qualità in grado catturare l’attenzione servono dei veri professionisti: video maker, grafici, designer. Freeda fin dagli inizi ha dimostrato di avere a disposizione questo tipo di competenze e lo ha fatto in un modo anomalo: mentre tutti sono partiti da un sito web qui di siti non si parla proprio. Un progetto come questo presuppone un investimento economico notevole. Freeda è quindi tutt’altro che una startup di ragazze millennials che hanno deciso di investire in un progetto editoriale femminista pop per dare alle donne la libertà di essere se stesse. Un’azienda con più di 30 dipendenti che pubblicano decine di post di altissima qualità al giorno deve avere non solo dei grandi finanziatori e delle grandi capacità di investimento, ma anche un modello di business chiaro e definito.

Leggi anche: L’Astrofisica Faedi: “Per le donne la strada nella scienza è ancora lunga ma io non mi arrendo”

5. Dietro al grande progetto, i soldi di Agnelli e Berlusconi

E curiosando un po’ in giro si scopre facilmente che Freeda non ha mamme ma papà. La società che l’ha creata è Ag Digital Media fondata da Andrea Scotti Calderini e Gianluigi Casole che fa parte di Holding Italiana Quattordicesima che secondo Italia Oggi è “la cassaforte del figlio maschio minore di Berlusconi e delle sorelle Barbara ed Eleonora”. All’interno di questa società ora sono entrati anche Ginevra Elkann (la sorella di John e Lapo) e una società che si chiama FW, di cui fa parte il produttore televisivo Lorenzo Mieli (il figlio di Paolo Mieli). Tirando le somme se la facciata di Freeda rimanda ad una realtà innovativa creata dalle donne per le donne, i soldi che ci sono dietro sono ancora una volta quelli di Agnelli e Berlusconi. Ora viene da chiedersi: come mai l’azienda Ag Digital Media che fa capo alla famiglia Berlusconi dovrebbe investire su un magazine che, anche se ha un grande seguito, è presente solo sui social e parla quasi esclusivamente di femminismo cool? La risposta la troviamo nelle parole che la stessa Daria Bernardoni ha pronunciato in un intervento al 47° Convegno dei Giovani Imprenditori di Confindustria: “Freeda in realtà offre alle aziende la possibilità di entrare in contatto diretto con questo target – ossia donne tra i 18 e i 34 anni – attraverso attività di comunicazione e marketing a 360°. Crediamo infatti che qualsiasi brand che voglia entrare a far parte delle conversazioni delle donne di questa generazione lo possa fare in maniera autentica e rilevante soltanto tramite Freeda, perché Freeda è già il motore delle loro conversazioni”.

Ecco il nocciolo: Freeda e suoi contenuti femministi sono solo l’esca per creare «conversazioni» tra e con le giovani millennials, per raccogliere una gigantesca quantità di dati da rivendere poi alle imprese che vogliono sfruttare quel target per le proprie strategie aziendali. Dietro a Freeda quindi c’è altro, una strategia dissimulata – e nemmeno tanto – di marketing aziendale, filtrata dal vessillo del femminismo millennial. Ma gli ideali, e il femminismo in particolar modo, sono forse qualcosa di più complesso, sfaccettato e difficilmente riducibile a un paio di grafiche corredate da citazioni? Spargere sopra a tematiche complesse e controverse una polvere dorata, edulcorandole e in certi casi banalizzandole, è davvero il modo migliore per valorizzare e promuovere l’indipendenza femminile? di Martina Mugnaini

Leggi anche: La storia di Masih che tolse il velo: “La prossima rivoluzione sarà femminista”

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